Ieri ho visto un vecchio, seduto su una panchina. Aveva capelli grigi, finissimi, il naso grande. Teneva il cappello appoggiato sulle ginocchia, e guardava davanti a se, apparentemente nel vuoto, e i suoi occhi erano tristi. Mi sono fermato, fingendo di parlare al telefono, per poterlo osservare ancora un po'.
La mano sinistra tremava, la destra stringeva il bordo della panchina. Ho provato ad immaginarlo giovane, in una Mantova di 50 anni fa, mentre passeggiava sotto quegli stessi alberi con la donna che amava sotto braccio, e il figlio piccolo che correva davanti a loro inseguendo un pallone di cuoio scuro, e mi sono sentito stringere il cuore.
Ho ricacciato dentro le lacrime, messo via il telefono, e ringraziato il cielo di aver avuto indosso gli occhiali da sole, nonostante il cielo fosse grigio e livido. Come la pelle di quell'anziano signore.
"Se non giochiamo più, è l'inizio della vecchiaia, per noi.
Si comincia a guardare l'orologio,
aspettando che i giorni scorrano via in fretta
contando gli anni.
Una volta avevamo qualcosa di bello a cui aspirare
Un altro giorno, un altro amico, un'altra estate..."
Fa tanta tristezza. E' forse il pensiero di restare soli senza nessuno di cui prendersi cura o da cui farsi prendere cura. Oppure il pensiero di non poter più tornare indietro proprio quando sta tutto per finire.
RispondiEliminaA vole mi chiedo come sarà... come sarà quando su quella panchina ci sarò io, sempre che abbia la fortuna di arrivarci. E proprio non lo so, ma mi riempio di tristezza lo stesso.
RispondiEliminaParafrasando Fabio Volo, non ho paura di morire. Mi dispiace, morire.