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venerdì 1 giugno 2012

Spettri

Mentre mi allontanavo da loro, da casa, guidando attraverso la campagna su strade buie e deserte, la strana e cupa sensazione che ho provato per tutta la giornata si è fatta più forte, più densa. La luna era offuscata da un velo di umidità che le dava un'aria spettrale, e gli alberi ai bordi della strada, con le loro fronde cadenti stracariche di foglie, sembravano troppo neri in lontananza, e troppo vicini all'auto quando gli abbaglianti arrivavano ad illuminarli, quasi come volessero... si, esattamente come in quel racconto di King. L'aria dolce che filtrava dal finestrino semiaperto sapeva, non chiedetemi come faccio a saperlo, di Lousiana e di paludi sconfinate.
Suggestioni filmiche, suggestioni letterarie... sono stanco, e quando capita spesso quei mondi si rovesciano nel mio.
Il terremoto, le distanze, gli anni che volano, le incertezze... mi hanno sfiancato. Vado a letto, sperando di riuscire a dormire.

Meno male che domani, con un po' di fortuna e un po' di altro, so che mi verrà naturale sorridere. Ma questa è un'altra storia...

sabato 4 febbraio 2012

Sofferenza elettrica

Pensavo di scrivere un semplice status su facebook, ma avrebbe avuto una connotazione leggera (come molti degli status che posto) e che sarebbe stata poco in linea con quello che ho provato guardando questo filmato (lo trovate più sotto).

Mi sono imbattuto in questo video su un blog a tema tecnologico che visito di quando in quando, inserito nella categoria che un mio "altrove compare" chiamerebbe cazzetterie.
Quindi un qualcosa di divertente, sul quale ci si dovrebbe fare una risata, un filmato che potrebbe andare in onda in programmi preserali fatti per famiglie che consumano i loro sofficini bevendo tavernello e coca cola davanti alla tv.

Eppure, io guardandolo, ho provato sofferenza. Vera, e disturbante... ed è folle, lo so. Folle perchè sto semplicemente vedendo una vecchia lavatrice col motore spinto al massimo da una -supopongo potente- unità elettrica esterna, e che man mano che passano i minuti si rompe, sempre di più. Come è ovvio che sia.

Eppure quella telecamera fissa sul soggetto, il sibilo del motore che ruota sempre più velocemente, gli intervalli tra uno stacco e l'altro, il silenzio prima di un nuovo impulso elettrico, la lavatrice che inizia a perdere pezzi, e poco a poco si deforma, con l'oblò che si apre e si chiude istericamente come una bocca che chiede aiuto ma non riesce a prendere fiato, e il rumore sempre più assordante... non mi è piaciuto per niente, non ci ho trovato niente di comico, o di anche semplicemente curioso.
Mi è semplicemente sembrata una tortura, gratuita, violenta, senza senso.
Un bambino che strappa le ali a una farfalla, un uomo bendato e legato su una sedia in un carcere di Guantanamo in attesa della prossima scossa elettrica, una cavia da laboratorio con lunghi aghi cromati infilati ovunuqe... sono queste le immagini che mi ha in qualche modo restituito il mio subconscio, e per quanto mi dica "ma è solo una lavatrice, cazzo", non riesco a trovare meno atroci questi fotogrammi.

E non mi si venga a fare il paragone con i bambini che muoiono di stenti nelle "repubbliche" centrafricane, o i video di reali torture inflitte ad esseri umani... sto male anche quando vedo quelli, non preoccupatevi. E' che quello che ho visto attraverso quei fotogrammi è più sottile, è qualcosa al quale ero meno preparato, o visivamente abituato, e forse per questo motivo è riuscito (assurdamente, ripeto) ad entrare più in profondità.

E può darsi che ultimamente mi trovi ad essere, per vari motivi, particolarmente, eccessivamente sensibile, ma... in questo momento sto pensando che utilizzerei questo video per uno spot di Amnesty International, e credo che non sarei l'unico a coglierne l'anima. Un'anima gratuitamente violenta, che non mi è piaciuta per niente.



venerdì 27 marzo 2009

Terrore sul lago

Era una calda mattina di luglio quando Ylenia e Leandro arrivarono sul molo. L'acqua del lago era calma e limpida, e rifletteva un cielo sereno, senza nubi.
La "Rosa porpora del Caro" dondolava placidamente tra le onde, col suo scafo rosso e la coperta bianca, immacolata.
Avrebbe dovuto chiamarsi "La rosa purpurea del Cairo", ma il ragazzo addetto alla decorazione dello scafo era affetto da una rara, curiosa dislessia di origine alimentare. Qualcosa andò storto.

Quando gli venne fatto notare il terribile sbaglio, al fine di lavare l'onta del disonore, il giovane decoratore tentò di uccidersi ingoiando tutto lo spinnaker, secondo una vecchia tradizione di famiglia. Fu fermato giusto in tempo, colpito da un provvidenziale colpo di remo sulla tempia. Quando si sveglierà potrà ringraziare il suo salvatore, un anziano allevatore di lombrichi che si trovava per caso a passare da quelle parti.
I medici sono ottimisti, forse prima delle prossime elezioni in Cina. 

Stavamo dicendo che la banca ondeggiava, e in effetti stava ancora ondeggiando.
Ylenia sentiva un tuffo al cuore ogni volta che la vedeva... ah quanto adorava quella barca. La adorava quasi quanto Leandro. Nel senso di "un po' meno di Leandro, ma neanche così tanto meno". Voglio dire la barca. Non fraintendetemi, anche Leandro l'adorava. Ylenia intendo, ma credo anche la barca. Ok basta.

Ylenia ancora ricorda quella ragazza, l'anno prima, e i suoi occhi sgranati al racconto della piccola crociera lacustre appena conclusa. Sorride. La plebe è così facilmente impressionabile...

Salgono sulla "Rosa" e mollano gli ormeggi: finalmente la tanto agognata crociera infrasettimanale ha inizio.
Leandro è al timone, e governa l'imbarcazione col piglio dell'uomo che sa creare un sorriso, giocare con gli occhi, giocare col viso. Sgranocchia dollari croccanti, salati in superficie. E' il nuovo trend della Bergamo bene, e lui ne va ghiotto.
Prepara uno spritz per se e uno per la sua amata “Quanto ne vuoi, amore mio?”
“Giusto un dito, caro. Sai che di più non reggo!”

Ylenia indossa il suo preziosissimo costume in cachemere e legge le ultime news dal mondo della depilazione assistita sul suo nuovo Blackberry Platinum. Il vento le soffia tra le extension biondo-britney-hilton, le più richieste del momento.
Guarda il suo Leandro, lui le sorride, lei gli sorride, lui le sorride ancora, lei gli sorride però un po' di meno perché si sta stancando, però resiste. Si sorridono ancora per un po', poi basta. Lui riprende a sgranocchiare dollari.

Poi l'auricolare bluetooth di Ylenia vibra (è il modello "Endless Epylessy", design by Dolce e Gabbana).
Lo indossa, e prova subito un intenso brivido di piacere. Poi si ricorda che va messo all'orecchio, quindi lo sfila da dove l'aveva messo e lo indossa all'orecchio. Un po' dispiaciuta, in verità.
Il vento le impedisce di capire chi è dall'altra parte dell'auricolare, e per sentire meglio va sottocoperta.

E' la domestica sudamericana, sta chiamando da casa. Sembra disperata, e urla frasi incomprensibili in quella sua bislacca lingua tanto diversa dal bergamasco.
Ylenia non capisce, le prende una strana agitazione. Ha paura che possa essere successo qualcosa ai suoi figli, ma dopo i primi momenti di panico si ricorda che non ha figli. Se si escludono quelli avuti con "Be-mom-a-lula", il nuovo entusiasmante videogioco per Nintendo Wii, ma quelli non contano. O si? Non lo sa, è confusa.

La domestica continua ad urlare la stessa frase: "Cuidado, señorita, los dedos, los dedos sin mano!"
Poi la linea cade, e sente solo il silenzio e il rumore delle onde.

Si gira verso Leandro, ma lui la fuori non c'è: il timone si muove libero. Esce in coperta con un solo balzo, la sua insegnante di danza jazz ne sarebbe orgogliosa.
Leandro sembra veramente scomparso, e per di più non c'è neppure più traccia di quei buonissimi dollari salati in superficie.

Alle sue spalle una voce: "Ylenia, e dunque?"
Si gira, e sul ponte vede un azzimato signore con i capelli grigi e un completo in tweed, seduto dietro una scrivania in legno scuro.
"Ma lei.. lei chi è, ci conosciamo? Che ci fa sulla mia barca?!"
"Che domande sono!! Non faccia la sciocca, certo che ci conosciamo!"
"...forse ci siamo visti su Facebook? O era Myspace? Non ricordo, mi spiace signor..."
"Signorina, forse mi sta prendendo in giro? Sono il suo professore di diritto caseario, e sono venuto qui per gli indici"
"Mio dio, gli indici... mi perdoni, ma non li ho qui con me. Provo a vedere se ne ho una copia su outlook, sa, col mio Blackberry Platinum posso controllare la posta ovunque mi trovi e..."
"Non ha capito, questa volta ci ho pensato io"
"Ci ha pensato lei? In che senso? Ma poi: cosa diavolo è il diritto caseario?!"
"Non insulti la mia intelligenza, non vorrà peggiorare forse la sua situazione? Ad ogni modo, per questa volta, ho portato io gli indici!"
"Ma è fantastico, non immaginavo che anche lei avesse un Blackberry... "
E il professore, sorridendo amabilmente: "Oh, non mi è servito alcun Blackberry in verità. Mi è bastato qualche vecchio, vecchissimo libro."

Ylenia si sente pizzicare il piede. Un dito mozzato, con movenze simili a quelle di un grasso bruco, sta cercando di salire lungo la sua gamba. E' inorridita, e con un isterico gesto di stizza lo getta nel lago.
Pietrificata, con gli occhi sbarrati, fissi verso il punto in cui il dito è affondato, non si accorge delle altre decine, centinaia, migliaia di dita che si stanno riversando sulla barca, e che lentamente si trascinano verso di lei, scivolano su di lei, entrano in lei, soffocano lei, uccidono lei.

Il professore, seduto alla scrivania, sorride soddisfatto e dice "Però, sti dollari salati in superficie! Non sono niente male!"


Nota dell'autore: questo racconto è liberamente isprirato ad alcuni accadimenti della vita di Nephie :-)

giovedì 12 marzo 2009

La lista è vita

Chi si ricorda da quale film ho preso in prestito la frase vince un giro sull'autoscontro e uno zucchero filato alla sagra della città (che qui a Mantova dura tipo un mese).

Ad ogni modo, mi capita di tanto in tanto di stilare mentalmente delle liste... quelle classiche, sapete: gli album preferiti, i film più belli visti ultimamente, le città che mi piacerebbe visitare.. e così via.
Ma esiste poi quella che credo sia la "madre di tutte le liste", e ognuno di noi ne ha una: la lista delle cose che amiamo e di quelle che odiamo.
Senza aver pretese di carattere psicologic-scientifico, penso che questa lista sia alla fine un po' la chiave che determina i nostri schemi comportamentali.
E rileggere il nostro elenco di "mi piace/non mi piace" messo giù nero su bianco potrebbe darci un quadro di noi stessi un po' diverso da quello che avevamo in mente prima, chissà.

Io per esempio mi sono scoperto veramente un rompicoglioni, l'avrei mai detto? Forse si ;-)

Forse è impossibile stilare una lista completa, ma qualche pensiero l'ho raccolto...

  • Mi piace la pasta, e i primi piatti in generale. Molto più dei secondi, e pure più dei dolci. Vivrei di pasta.

  • Sono altamente meteopatico, e adoro il sole e il caldo. Il freddo mi piace solo se sono in montagna su una pista da sci, STOP. E cmq solo se c'è il sole.

  • Il pesce mi fa vomitare. Credo di essere allergico, visto che quando lo mangio cambio colore come una tv mal sintonizzata. L'unico pesce che mangio è quello che non sa di pesce: il tonno.

  • Però, ora che ci penso, forse è senza pizza che non potrei vivere. Inizio ad avere sospetti sulla presenza di sanque partenopeo nelle mie vene.

  • I cani di piccola taglia, quelli col cappottino e che abbaiano continuamente con quella loro vocina penetrante, li prenderei tutti a calci. Alla Del Piero che tira un rigore, per intenderci

  • Mi stanno sulle palle i cani aggressivi, tipo rotweiller o pitbull. E in linea di massima mi stanno sulle palle anche i loro padroni, che li addestrano per renderli ancora più aggressivi. E non mi vengano a dire i veterinari intervistati dal TG5 che non è vero, che tutti i cani sono uguali e che un pitbull è potenzialmente docile come un labrador, perchè non è vero.

  • Coi gatti ho un rapporto ambivalente: un po' sono allergico e un po' la loro schizzinosa aria di indipendenza (fino a quando non devo aprirgli la scatoletta del wiskas) mi va venire voglia di provvedere ad un trattamento "Del Piero" anche nei loro confronti. Poi va a finire che gli faccio le coccole, perchè in fondo sono un tenerone.

  • Odio andare a letto presto alla sera, e amerei riuscire svegliarmi prestissimo alla mattina, per vedermi l'alba tutti i giorni. Purtroppo una cosa, nel mio caso, esclude l'altra.

  • Amo la musica, credo più della pasta e della pizza, ed è tutto dire. Non riesco proprio a capire chi riesce a farne a meno. Ho sempre studiato e lavorato ascoltando musica, mi aiuta a produrre meglio. Sono come le mucche, che fanno il latte più buono se ascoltano Beethoven. O era Mozart?

  • Odio assumere medicinali.

  • Amo assumere Jagermeister e Petrus. ;-)

  • Odio gli addii

  • Non mi piacciono i film horror. Che considerando i miei gusti "letterari" fa un po' strano... (Chi ha detto che me la faccio sotto?! Haha, ehm, ma cosa dite...)

  • Ho un rapporto strano col telefono... non lo amo particolarmente. Credo sia un retaggio della mia (antica) timidezza. A volte si tratta solo di rompere il ghiaccio.

  • Odio la "mondanità a tutti i costi", quella che più di una volta hanno provato a farmi praticare.

  • Amo la compagnia degli amici, ma amo anche potermi ritirare di tanto in tanto nella mia caverna. Vivere un po' di solitudine, di quando in quando, mi permette di "donarmi" meglio poi, una volta ricaricate le batterie emotive.

  • Non sopporto chi si piange addosso e non fa niente per cambiare la propria situazione.

  • Non sopprto neppure chi è convinto di essere sempre un passo avanti agli altri.

  • Non sopporto chi porta gli occhiali da sole alle 5 del pomeriggio a dicembre, quando sono già 2 ore che è buio, solo perchè è fashion.

  • Provo profondo rispetto per chi affronta la vita a testa alta, nonostante i problemi, nonostante le difficoltà. Una lezione di dignità che tanti "arrivati" (o che si sentono tali) probabilmente non capirebbero neppure.

  • Mi fa ridere chi va a far la spesa con l'auricolare Bluetooth nell'orecchio. Sia quelli che parlano, e si muovono e gesticolano come se avessero il ballo di san vito, mentre stanno solo parlando con l'amministratore del condominio, sia quelli che ce l'hanno semplicemente acceso (con l'odioso led blu che ammicca), e per tutte le 3 ore che passeranno tra il banco della frutta, quello della carta igenica e la cassa, non li chiamerà nessuno.

  • Odio quelli che al supermercato fanno i furbi e si intrufolano a metà coda. Se poi hanno l'auricolare bluetooth...

  • Trovo ridicolo chi parla sempre e comunque d'affari, o di lavoro, di contatti importanti, di progetti da sviluppare, di quanto le sue idee siano avanti anche quando si è fuori solo per una FOTTUTISSIMA BIRRA.

  • Sempre ridicolo chi va in vacanza in posti sempre più esotici, con la scusa che la "sardegna, sai, è tanto noiosa". E quando racconti che ti sei divertito al lago con gli amici ti guarda come se fossi l'ultimo dei coglioni.

  • Mi mandano in bestia i lunatici, che un giorno ti salutano col sorriso e il giorno dopo è come se non esistessi, o peggio dimostrano insofferenza solo per il fatto che sei li vicino. E tu non hai fatto nulla. E se glielo fai notare nel giorno sbagliato ti urlano addosso che NON ROMPERE, OGGI VA COSI'. Sai cosa c'è? Che puoi ficcarti la luna dove dico io. Ossequi.

  • Odio i camion che in autostrada tagliano le curve, o si buttano in un sorpasso senza mettere la freccia. E mio padre è un camionista (ma lui è bravo, lo so).

  • Odio quei dipendenti statali/comunali/provinciali che quando sei li che aspetti il tuo turno perdono tempo parlando della sciatica del collega a casa in malattia

  • Non sopporto chi, al bar, chiede i caffè al ginseng macchiati tiepidi con latte non pastorizzato in tazza larga, trasparente, ovale, con cucchiaio alla francese e la brioche integrale con marmellata di mirtilli. Ah dice che è di lamponi. Proprio non ce l'ha ai mirtilli vero? Ecco, mi piacerebbe fare il barista per un giorno, e versare inavvertitamente il bidone dei fondi di caffè in testa a questi scassaminchia.

  • Odio le scarpe cosiddette "ballerine". Credo non esista niente di peggio, sul fronte complementi di vestiario femminile. Sono veramente inguardabili.

  • Sono sensibile alla gentilezza. E all'ironia.

  • Apprezzo, e molto, chi sa ridere un po' di se stesso e delle sue manie.



E ora, a nanna.

domenica 5 ottobre 2008

[racconto] - Vecchio Jazz e ghiaccio nero - Seconda parte

[vai alla prima parte]


Foglio #2
L'altra sera ci sono tornato. Erano passati più di quattro mesi, pensavo di aver scansato il pericolo ma non ho retto, non ce l'ho fatta.


Ero uscito con alcuni colleghi per una birra al pub non molto distante dal magazzino. Tra di loro c'era uno nuovo, un messicano taciturno che non doveva avere più di 20 anni. Era stato assunto da poco, di lui sapevo solo che lavorava al reparto spedizioni. Al tavolo se ne stava in silenzio seduto di fronte a me, giocherellando con un biglietto nero che aveva un'aria familiare... quando alzai gli occhi mi stava guardando, sorridendo. Poi mi lanciò il biglietto e se ne andò, senza dire una parola. La scritta Black Ice ammiccava riflettendo le luci del locale sulla sua superficie lucida.


Avrei dovuto strapparlo ma, naturalmente, non lo feci. Verso le dieci mi congedai dai ragazzi, e questa volta non ci provai neppure ad andare verso la metro... mentre percorrevo la strada che mi separava dal Black Ice avevo il cuore pieno di terrore ed eccitazione. Sapevo che stavo commettendo un grosso errore, ma non potevo farci nulla. Dovevo vederla, almeno ancora una volta.


Ci fu di nuovo il labirinto di muri, ci fu di nuovo la via deserta, quel terrificante cielo nero e quell'insopportabile ronzio. E ci fu di nuovo il pinguino impomatato a darmi il benvenuto, di nuovo il locale gremito di gente sorridente arrivata chi sa come fino laggiù, e ci fu lei.


Indossava ancora l'uniforme da soldato, e se possibile era ancora più bella della prima volta che la vidi. Mi riconobbe subito, e mi salutò con la mano. Sembrava felice, e mi accorsi della malinconia celata dietro agli occhi solo quando fummo vicini.


Salimmo ancora una volta fino all'ultimo loggione, e facemmo l'amore in modo disperato, furioso. Le visioni arrivarono e se ne andarono più volte, ma non mi fermai... in bilico tra realtà ed incubo non mi interessava più da che parte dello specchio mi trovassi. Desideravo solo essere li con lei, qualsiasi luogo della mente o dello spazio fosse quel posto.


Eravamo coricati uno di fianco all'altra, ancora ansimanti. Stringevo la sua mano, e lei mi disse che voleva spiegarmi, che doveva spiegarmi. Cercai di dirle che non mi interessava, che non volevo sapere nulla, ma lei insistette.


E scoprii che stavo morendo, lentamente. In un certo senso mi stavo uccidendo da solo, e lei era il veleno, era il tubo del gas, era la pallottola sputata dalla canna della pistola.


Ogni volta che uscivo da quel locale perdevo una parte di me... poco a poco il Black Ice mi avrebbe divorato, cibandosi dei miei ricordi e dei miei sentimenti fino a quando di me non sarebbe rimasto che un involucro di carne in grado a malapena di accorgersi della differenza tra notte e giorno.


Senza saperlo, non consciamente almeno, presi la decisione di uccidermi proprio quella sera al pub irlandese, e chissà come mai questa rivelazione non mi sconvolse più di tanto.


Mi disse che nessuno veniva trascinato al Black Ice per forza o convinto con l'inganno, non sarebbe stato eticamente corretto: ogni singolo cliente aveva deciso il suo destino già prima di varcare la soglia del locale.


Ascoltavo con attenzione ogni sua parola, e per quanto pazzesco fosse quello che mi stava raccontando, in qualche modo sapevo che si trattava della verità.


Le raccontai delle mie "visioni", e mi disse che era del tutto normale averle... ma che non si trattava di visioni. Piuttosto la visione era quella che stavo vivendo in quel momento, coricato su morbidi cuscini e avvolto in lenzuola di seta. Ciò che avevo visto in realtà erano squarci aperti sul vero Black Ice, o meglio su uno dei suoi volti. E prima che potessi formulare la domanda mi disse che si, la stessa cosa valeva anche per lei...


Rimasi in silenzio per qualche minuto, mentre lei mi accarezzava piano. Poi le chiesi se l'etichetta del locale concedesse di potersi innamorarsi del proprio carnefice. Dissi queste parole col sorriso amaro di chi sa che è tutto perduto. Li, tra le sue braccia, stavo bene. Disse di si, ma che non sapeva se fosse concesso il contrario.


Arrivai a casa alle 5, e decisi che mi sarebbe bastata un'ora per recuperare le energie e tornare al lavoro. La sveglia suonò alle 6, e poi ad intervalli regolari fino alle 7, ma non la sentii. Due ore dopo suonò anche il telefono, e mi svegliai di soprassalto: era la segretaria del mio capo, che mi avvisava di passare il prima possibile a svuotare il mio armadietto e a riconsegnare il badge di riconoscimento. Ero stato licenziato.


Avevo appena scoperto che stavo lentamente morendo, che non potevo farci niente... e guardando la mia vita da questa nuova angolazione l'idea di perdere il lavoro sembrava decisamente meno drammatica. Sono andato al magazzino, preso la mia roba e infilato il badge nel taschino della camicia verde-cavolfiore del capo. Senza dire una parola. Lo fissai per qualche secondo... mi sembrava stranamente più basso, e la sua faccia ricordava quella di un cane, un bulldog forse. Strano vero?


A dirla tutta, non era solo quel figlio di puttana a sembrarmi "singolare": le strade, i palazzi, le auto, le persone... pareva tutto assolutamente normale, eppure qualcosa di diverso c'era. Qualcosa che aveva a che vedere con le proporzioni delle cose, con i colori, con le espressioni sui volti dei passanti. Ma forse mi sbagliavo, ed era solo colpa del sonno arretrato.



Sono 3 giorni che non esco di casa, il frigorifero è praticamente vuoto. Guardo fuori dalla finestra e la città sembra, fortunatamente, la solita: il palazzo di fronte è sempre lo stesso vecchio palazzo di fronte, le auto sono sempre parcheggiate in tripla fila, e non c'è nessun mostro verde con le squame a spasso per il quartiere. C'è solo questa pioggia fetida che cade ininterrottamente da l'altro ieri.

Non mi va di uscire, ma starmene qui rinchiuso non mi sta aiutando. Dovrei andare a prendere qualcosa da mettere sotto i denti, magari mi distraggo un po' e smetto di pensare a quello che mi ha detto la ragazza. A volte riesco quasi a convincermi di essermi immaginato tutto, ma il suo profumo sui miei vestiti è li a ricordarmi che non è così.


Se è vero che la mia fine è inevitabile, l'unica cosa che posso fare è cercare di allontanare il più possibile il momento in cui avverrà. Deve essere un rigurgito di istinto di sopravvivenza, credo. Devo stare lontano da quel locale, tutto qua.


Ok, ho deciso: esco a fare la spesa. E andrò anche ad iscrivermi alle liste di collocamento, dovrò pur pagare l'affitto i prossimi mesi.



Foglio #3
La situazione sta precipitando, e sembra che non possa farci niente. E' passato più di un anno da quando ho iniziato a cercare ma non ho ancora trovato un lavoro stabile, e i soldi iniziano a scarseggiare. Diciamo pure che i soldi sono finiti. Ho fame, cerco di saltare più pasti che posso, almeno fino a quando non riuscirò a guadagnare qualcosa.


Il padrone di casa mi ha già detto che se non pagherò neppure il prossimo affitto sarà costretto a cacciarmi di casa, e che si terrà i mobili e la tv per rifarsi in parte di quello che gli devo.


La città la fuori è diversa, mi sembra di vivere in uno stato di allucinazioni perenni dove tutto è strano, sbagliato... le prime volte mi ostinavo a dar colpa alla sonno (dormo pochissime ore a notte ormai, e mi sveglio in continuazione), poi alle medicine che prendo per combattere l'insonnia, e poi ancora alla fame, ma so che non è nulla di questo. E' come se il mondo del Black Ice stesse straripando in quello reale, o forse sta solo straripando nel mio cervello. A volte mi sembra di sentire anche quell'orribile ronzio... mi sta cercando, mi sta chiamando. Sono parecchi mesi che manco da la, in fondo.


Ma resisterò, devo resistere. Forse passerà. Fuori piove ancora, non smette quasi mai. Come fa a non essersi ancora allagata questa città?!




Foglio #4


Mi sono accorto che la mia memoria inizia a funzionare in modo strano... spesso non ricordo cosa ho fatto dieci minuti prima, ma ricordo con chiarezza quello che ho fatto la sera precedente. Oppure ricordo avvenimenti del passato fino nei minimi dettagli, ma non ricordo le facce di amici e conoscenti. L'altro giorno per strada mi ha fermato un tizio che diceva di essere un mio vecchio collega al magazzino... si tratta di solo pochi mesi prima, ma io non lo ricordavo minimamente... forse il nome non mi era nuovo ma per il resto, il vuoto.

Non si sta mettendo particolarmente bene, credo.


Ah dimenticavo... alla fine il vecchio padrone mi ha sfrattato... non glie ne faccio una colpa, in fondo lo capisco. Adesso vivo in un vecchio albergo decrepito con i muri dei corridoi che puzzano di piscio, ma almeno non dormo accucciato nei cunicoli della metro come ho fatto le ultime due settimane. Sopravvivere è difficile, non credevo potesse essere così dura... qualche giorno fa ho rubato per la prima volta in vita mia, un po' di cibo al supermercato. Mi sono vergognato di me stesso, ma l'alternativa era saltare per l'ennesima volta la cena, non potevo farcela.


Ad ogni modo il nuovo padrone sembra un tipo simpatico, credo che faccia il pappone. Porta sempre con se una pistola infilata nella cintura, bene in vista, che gli da un tono pittoresco. Io poi o vedo altissimo, circa due volte me, ma ormai mi sono abituato a queste allucinazioni. Ho notato che sono più forti verso sera, e che alcune zone della città sembrano esserne miracolosamente immuni. Un giorno di questi voglio disegnare una cartina.


Ieri mattina sono passato davanti al parco giochi di una scuola, non aveva ancora ripreso a piovere e addirittura alcuni raggi di sole erano riusciti a farsi strada tra le nuvole e illuminare le giostre, e i bambini che si rincorrevano e si arrampicavano sui castelli e volavano sull'altalena e... mi sono seduto su una panchina e ho pianto.



Foglio #5
Ieri sera quel pappone del cazzo mi ha pestato. Prima col calcio della pistola, e poi con l'abat-jour... la mia faccia è tutta un livido, è un miracolo che non mi abbia fatto saltare alcun dente. Aveva bisogno della mia stanza per una delle sue ragazze e per il suo cliente, e quando gli ho detto che non se ne parlava ha trovato il modo più rapido per convincermi.


Me ne sono stato seduto nel corridoio tutto il tempo, quasi un paio d'ore. Poi ho dormito sul tappeto, non mi andava di coricarmi su quel letto ancora maleodorante di sudore e profumo da quattro soldi.


Questa mattina ho scippato una signora sulla cinquantina che era ferma davanti alla vetrina di una boutique, e mi è andata bene: il portafoglio era zeppo di soldi, forse riesco ad arrivare alla fine del mese senza dover rubare di nuovo al supermercato.


Vorrei dire che non sto pensando al Black Ice, ma la verità è che ci sto pensando costantemente. So che andare laggiù significa accelerare la mia corsa verso il baratro, ma mi chiedo se ha ancora senso la vita per come la sto vivendo ora. Forse darci finalmente un taglio è l'unica soluzione. L'unica cosa che mi trattiene è la vergogna di farmi vedere da lei in questo stato... ed è folle considerato che sappiamo bene entrambi che è il suo veleno che mi ha ridotto così.


Ho preso la mia decisione, questa sera andrò al Black Ice, e poi che succeda quello che deve succedere.




Reprise
Questo è quanto, se non fosse per quei pochi fogli quasi non saprei di aver avuto una vita diversa, modesta ma quanto meno dignitosa, prima del Black Ice.


Sono ancora vivo, ma a che prezzo? Non ricordo più nulla, compio azioni delle quali si vergognerebbe anche il peggiore dei balordi della città, vivo in questa topaia da mesi e le allucinazioni mi seguono ovunque.


Quella sera andai al Black Ice. Il ronzio davanti all'ingresso era insopportabile, forse era felice di vedermi e mi stava facendo le feste. Ero davanti al bancone e mi guardavo riflesso nello specchio alle spalle del barista. Il viso era rilassato, nessun segno di quello che avevo vissuto in questi due anni, le occhiaie profonde erano svanite, barba e capelli erano curati, e riuscivo a sorridere senza sembrare una parodia di un gangster fallito. Ero diventato, forse ancor più delle altre volte, parte dell'illusione.


Arrivò lei e dopo un paio di cocktail ci ritirammo nel loggione. L'orchestra quella sera suonava un jazz in stile marcatamente jungle. Una cosa del Black Ice bisognava dirla: quel locale aveva ottimo gusto in termini di musica.


Coricati sui comodi cuscini parlammo a lungo, ma questa volta non feci domande, sapevo ormai tutto quello che c'era da sapere. Ci spogliammo piano, e facemmo l'amore. Tra le sue braccia avrei potuto morire, ed era esattamente quello che una parte di me aveva in mente. Era coricata su di me e mi baciava il petto, e per una frazione di secondo vidi un lampo di realtà... mi accarezzava leggera mentre i suoi denti sporchi di sangue affondavano dolcemente nella mia carne, e mi ricordo che pensai che non volevo che si fermasse, e la strinsi ancor più forte a me. Poi ad un certo punto si staccò, improvvisamente. In ginocchio di fronte a me, mi guardava triste con quegli occhi azzurri come il cielo d'estate. Mi sentivo totalmente svuotato, senza forze... cercavo di mettermi a sedere aiutandomi con le braccia, ma continuavano a cedere e tornavo a sprofondare tra i cuscini. Era arrivata quasi in fondo, ma aveva deciso di fermarsi. Mi aiutò ad alzarmi e a rivestirmi... era ancora nuda e splendida, con la luce calda delle lampade che bagnava la sua pelle e i suoi lunghi capelli.


Ci baciammo ancora una volta, un bacio dolce e straziante. "Ora devi andare, davvero... non puoi più restare." Lo disse con voce tremula, mentre mi stringeva le mani. A malincuore uscii nel corridoio, barcollante e insicuro, e scesi nel salone principale.


Arrancai fino all'uscita del locale, la vista mi si stava offuscando sempre più e quasi non vedevo dove andavo. "Sta bene signore?" Chiese il pinguino, premuroso, con solo una impercettibile sfumatura di ironia nella voce.


Raggiunsi la strada col suo lancinante ronzio di insetti elettrici e l'imbocco del vicolo, poi non ricordo altro.


Mi sono svegliato parecchie ore dopo, rannicchiato dietro un cespuglio, vicino all'ingresso del vicolo. Era giorno, e la via era trafficata e viva. Nessun ronzio. Ero indolenzito e a pezzi, ma quella dormita deve avermi rigenerato almeno abbastanza da permettermi di alzarmi e reggermi in piedi.


Il Black Ice se ne stava di fronte a me, un vecchio edificio sfitto con una enorme insegna nera logora e scolorita. La via si estendeva da nord a sud, e la potevo vedere finalmente nella sua interezza, non più inghiottita dal nero innaturale della notte. I passanti, le auto e gli edifici... qui era tutto normale. Era assurdo, ma doveva essere una di quelle zone miracolosamente non invase dalle deformanti allucinazioni del Black Ice.


E la cosa più incredibile era che finalmente avevo capito dove mi trovavo.. su quella strada ci sarò passato almeno una ventina di volte da quando abito in questa città, ma non avevo mai notato né quel palazzo né il vicolo. E' anche relativamente facile da raggiungere in auto, almeno di giorno... forse anche di notte,chi lo sa, ma bisogna riuscire ad attraversare indenni quel buio. In effetti non che il parcheggio del Black Ice fosse molto affollato. Pensavo a ruota libera a queste cose mentre tornavo a casa.


Una volta arrivato mi buttai ancora vestito sul letto e dormii per quasi 24 ore un sonno profondo e senza sogni. E' successo due giorni fa. Le energie poco a poco sono tornate, ma la città la fuori è sempre meno reale e sempre più un incubo buio e lucido, la testa mi fa un male cane e lo stomaco brucia a causa del cibo scadente e gli eccessi di gin. Non riesco quasi a guardarmi allo specchio, e non riesco a chiudere occhio senza pensare a lei, al profumo dei suoi capelli, al suono della sua voce, al calore della sua pelle.


Devo mettere fine a questa storia. Lo farò stanotte, non posso più aspettare.


Escludo di scrivere altre pagine di questo diario, che probabilmente verrà divorato dai topi della stanza di fianco non appena si accorgeranno che il loro vicino umano se ne è andato per non tornare più.


Vado.




L'articolo di giornale
Attorno alle 4 della scorsa notte, un boato ha squarciato l'aria della nostra città. Il vecchio Solomon Building è quasi interamente crollato a causa di una violentissima esplosione verificatasi alla sua base.


Il palazzo, sede di una delle principali società d'assicurazioni della città fino agli anni 40, era disabitato dal 1972, anno in cui bruciò lo storico jazz club "Black Ice", che occupava i primi quattro piani dello stabile.


Dai primi elementi raccolti, pare che un vecchio furgone carico di tritolo sia stato scagliato a folle velocità contro l'ingresso principale del vecchio palazzo. Tra le macerie non sono stati rinvenuti resti umani, il che lascia supporre che l'attentatore non si trovasse sul mezzo al momento dell'esplosione.


Le lamiere del furgone, dilaniate e deformate dal calore dell'esplosione, difficilmente potranno fornire ulteriori elementi per le indagini.


Tuttavia su una delle fiancate del mezzo sono stati segnalati strani e profondi tagli che presentavano evidenti tracce di materiale cheratinoso sui bordi frastagliati. Come un enorme "graffio".


Naturalmente gli inquirenti non ritengono questi particolari di alcun rilievo nell'ambito delle ricerche, e noi con loro. A nostro avviso ora la domanda da farsi è perché questo insensato gesto? il raptus di un folle o speculazione edilizia creativa?



Epilogo
L'uomo guardava il palazzo esplodere e crollare, lingue di fuoco schizzavano dalle finestre in frantumi e la grande insegna bruciava luminosa nella notte stellata.


L'uomo sorrideva, ma una lacrima gli scendeva sulla guancia scarna, riflettendo l'arancio e il giallo brillante delle fiamme. Pensava ad una persona che non vedrà più, e pensava ad un futuro da ricostruire da zero.


Poco distante da lui, mentre si avviava in direzione del porto, non vide una piccola barchetta di carta. Stava scivolando su un rivolo d'acqua verso un tombino, ma si incastrò contro un rametto, e fu salva.

[racconto] - Vecchio Jazz e ghiaccio nero - Prima parte

In una camera d'hotel

Il mio nome lo ricordo ancora con chiarezza, ma non si tratta di un dettaglio molto interessante.


E' una delle cose che riesco a ricordare senza essermelo per forza scritto su un foglio di carta. Mi sono reso conto che ho iniziato a scrivere troppo tardi, e con poca regolarità. Molti ricordi sono ormai scomparsi, altri sono invece con ogni probabilità proiezioni deformate dei ricordi originali. Lo intuisco dai dettagli grotteschi, dalle incongruenze, dal fatto che è sempre notte, e piove costantemente. O forse non sono i ricordi ad essere deformati, ma la realtà stessa... non lo so più.


Questa camera d'albergo è uno schifo, me è il meglio che posso permettermi.


La muffa incrosta ogni parete. Dell'antica carta da parati gialla, decorata con un motivo di foglie rampicanti dorate, rimangono solo alcuni brandelli consunti. Lo specchio in stile liberty appeso sopra la piccola scrivania è opaco e macchiato, arrugginito. Sui lati si intuisce la sagoma di foto anticamente fissate alla cornice metallica.


Il pavimento è a rombi neri e bianchi, o forse è meglio dire giallastri.


Il lampadario è di quelli economici. Un filo elettrico che penzola dal soffitto con in fondo una lampadina grande come un pugno. Non ha mai funzionato. C'è una piccola abat-jour risalente credo ai primi anni 20 sopra il comodino, e poi c'è un vecchio armadio, con ogni probabilità dello stesso periodo. E' tutto terribilmente deprimente.


Ieri sera mentre facevo la doccia due scarafaggi sono usciti dallo scolo. Uno dei due era davvero enorme.


Odio gli insetti, li ho sempre odiati. La luce tremolante del neon luccicava sulla loro corazza viscida. Muovevano quelle loro piccole antenne e giravano in cerchio, esplorando il piatto di ceramica bianca della doccia.


Li ho guardati per un po', poi li ho ricacciati nel buco dal quale erano usciti, usando il getto d'acqua della doccia.


Non so perché ne parlo.


Mi sono poi coricato a letto cercando di prendere sonno, ma le fitte allo stomaco non mi davano tregua, e per quasi tre ore sono rimasto sveglio con gli occhi sbarrati fissando le incrostazioni del soffitto.


Giocando a riconoscere visi, animali e oggetti in quelle sagome indistinte come quando da piccolo, coricato nella soffice erba del giardino di casa, guardavo le nuvole rincorrersi nel cielo.


Ma non succedeva niente, le macchie rimanevano macchie, gli strappi restavano strappi.


Forse non avrei dovuto saltare ancora una volta la cena. E forse non avrei dovuto spendere gli ultimi spiccioli per quella bottiglia di gin scadente.


Alla fine mi sono addormentato.


Adesso sono le 10 di mattina, piove a dirotto da un po'. La luce che entra dall'unica finestra non murata della camera è di una triste sfumatura di grigio.


La città la fuori è un continuo ululare di sirene e le urla dei predicatori raggiungono anche il quindicesimo piano di questo vecchio palazzo, mescolate al ritmico scrosciare della pioggia.


Pensavo che forse continuare a scrivere non ha più molto senso, ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Come me, mi verrebbe da dire.


Ma non mi illudo, alla fine è solo questione di tempo. Ne è passato tanto, troppo, ma almeno sarò io a decidere quando mettere fine a tutto.


E' una città strana questa. Appena ti allontani dalle luci e dal frastuono dell'uptown è facile perdersi.


Soprattutto se sei solo, quando le cose non vanno come vorresti, quando i tuoi affetti sono lontani, e quando l'orgoglio ti impedisce di tornare indietro. perché risulta più facile lanciarsi verso il baratro piuttosto che ammettere che non è andata, o forse è per non vedere la tristezza negli occhi di chi ti ama, di chi ti ha visto partire pieno di sogni e di fiducia.


E' triste che non abbia precisa memoria di quello che mi ha portato a ridurmi in questo stato, di come è iniziato tutto, ma come dicevo i ricordi del mio recente passato sono abbastanza frammentari e confusi.


L'unica cosa che so è che i miei sogni di diventare giornalista a qualche punto della mia vita devono essersi infranti. L'ho dedotto dalle raccomadate che ho trovato in un cassetto, risposte a mie richieste d'assunzione che con tono gentile mi informavano che il loro organico era al completo e che, ad ogni modo, non avrebbero assunto personale alla prima esperienza.


In fondo ad uno dei cassetti ho poi trovato la foto di una ragazza. Era strappata in due. Non c'erano lettere o altro che la riguardassero, ma doveva essere stata qualcuno di importante per me.


Parlo di queste cose come se si trattasse di ricordi di qualcun'altro, della vita di qualcun altro, ed è folle lo so.


L'unica cosa che ora so è che tutto è perduto, ed è doloroso, straziante. Qualche notte fa, pensando a questa situazione, la associai ad una immagine di me da piccolo, avrò avuto sette, otto anni.


Ero al paese dei nonni, un agosto di mille anni fa, ed era appena passato un violento acquazzone. Mio nonno mi aveva preparato una delle sue speciali barchette di carta: sapeva che adoravo farle veleggiare nelle enormi pozzanghere che si formavano nelle vie del vecchio quartiere residenziale.


Le sue erano barchette speciali: dopo aver dato la forma al foglio di carta prendeva una candela e l'accendeva. Poi con un piccolo pennellino prendeva la cera liquida che si formava attorno allo stoppino e la spalmava sapientemente sullo scafo, rendendole quasi impermeabili, e per me era favoloso.


Finita l'operazione mi diede la barchetta, sorridendo. Ero già vestito di tutto punto, con gli stivali di gomma rossa e quel ridicolo l'impermeabile giallo. Presi la barchetta e corsi giù dagli scalini saltandoli due a due. Ricordo ancora l'odore dell'asfalto bagnato, mescolato al profumo dell'aria fresca e dei pini del giardino. Correvo come un pazzo verso il quella che sarebbe stata sicuramente la più grande e bella pozzanghera di tutto l'isolato, quella che di solito si formava vicino all'incrocio. Non vedevo l'ora di posarla sull'acqua, per poi accucciarmi e scoprire che direzione avrebbe preso, quanto tempo avrebbe resistito, fino a dove si sarebbe spinta. E il giorno dopo in classe ne avrei parlato con i miei amici.


Ma correvo troppo forte, e non mi ero accorto di un piccolo pezzo di ramo davanti a me. Ci scivolai sopra, persi l'equilibrio e nello slancio della corsa caddi in avanti sull'asfalto bagnato e ruvido, sbattendo con violenza la testa. La botta fu tremenda, tanto da offuscarmi per qualche secondo la vista. Quando riuscii di nuovo a mettere a fuoco, vidi la barchetta a circa un metro da me. Era finita in un rigagnolo, e stava scivolando verso il tombino. Ricordo che urlai "NO!!" mentre cercavo di rialzarmi, ma mi faceva male il ginocchio e i miei movimenti erano esasperati e lenti, per la furia caddi di nuovo. Ricordo chiaramente il dolore dei piccoli sassolini che si conficcarono sotto il mento, il sapore del sangue in bocca, la sensazione degli occhi gonfi di quelle lacrime che sarebbero sgorgate di li a poco.. e la visione della piccola barchetta che raggiungeva il tombino, si incastrava per una frazione di secondo nella grata metallica, per poi inabissarsi giù, nel buio, senza che io potessi farci niente.


E' assurda la chiarezza con la quale sia riuscito a ricordare questi ed altri eventi del passato, considerato che stento a ricordarmi cosa ho fatto l'altro ieri. Ma ho constatato che è un processo degenerativo, quindi è ridicolo farsi illusioni pure su questo.


L'unica cosa che mi rammenta ancora che sono un uomo sono i ricordi... non voglio diventare una specie di zombie che si trascina per le vie della città senza sapere dove sta andando né perché. Devo prendere una decisione in fretta... dovevo forse prenderla tempo fa, lei mi aveva avvertito che ritardare l'inevitabile sarebbe stato solo peggio, ma non avevo ancora capito la gravità della situazione.


Come dicevo, quel poco che so del mio passato recente l'ho scoperto grazie ai fogli che ho trovato nei cassetti della scrivania dell'appartamento dove vivevo prima. Oltre alle raccomandate e alla foto strappata, trovai infatti quello che potrei definire il mio "diario". Immagino che possa far risalire l'inizio di questa storia ad un periodo vicino a quello in cui fu scritta la prima pagina del "diario", circa due anni fa.


Era una sera solitaria come tante, e me ne stavo nel mio modesto appartamento vicino al porto cercando di leggere un libro. Di giorno lavoravo in un magazzino. Non ricordo che tipo di magazzino fosse, né dove fosse, e neppure che mansione avessi, ma non importa. Non era un gran che, mi pagavano poco e saltuariamente, ma avevo un lavoro e non ero costretto ai vergognosi furtarelli che adesso mi permettono di mangiare di quando in quando e di pagare l'affitto al padrone di questa topaia. Un figlio di puttana.


Ecco quello che successe.




Foglio #1
Non ricordo come presi la decisione, ma poco prima delle dieci me ne uscii in strada, credo avessi semplicemente voglia di vedere un po' di gente.


Era una notte fredda, indossavo un pesante giaccone di pelle, una cuffia nera calata fin quasi sugli occhi e un paio di guanti. Le luci della città si riflettevano sull'acqua nera della baia. Davanti a me vedevo il grande ponte che collegava la parte sud della città con la parte nord. Era imponente, soprattutto visto dalla zona del porto.


Con la metro mi ci volle poco più di mezzora per raggiungere l'uptown. Mi tuffai nella folla: gruppi di ragazzi che ridevano e scherzavano tra loro, giovani e meno giovani coppie passeggiavano a braccetto, uomini d'affari con la ventiquattrore in una mano e il trolley nell'altra. La strada era un fiume di automobili lucide che riflettevano le luci dei locali alla moda, delle vetrine dei negozi e dei ristoranti. Il cielo sopra di noi minacciava pioggia, o forse addirittura neve considerata le temperatura glaciale, ma nessuno sembrava curarsene.


Vidi un pub gremito di gente, gestito da irlandesi (l'enorme arpa celtica che campeggiava sulla vetrata lasciava pochi dubbi a riguardo), e decisi di entrare. Mi sono sempre stati simpatici.


Quasi tutti gli avventori avevano gli occhi puntati verso un grosso schermo, davano una partita di calcio. Campionato, ovviamente, irlandese. Una delle due squadre era mi pare il Shelbourne, l'altra forse era quella dei Bohemians.


Dopo la terza birra mi scoprii accanito sostenitore della squadra con la maglia rossa e bianca, penso il Shelbourne. Vinse l'altra squadra, ma che importava? Ricordo che un ragazzone biondo che indossava una maglia rossa e bianca mi si avvicinò, con quella sua grossa faccia quadrata e affabile, mi diede una poderosa pacca sulla spalla mentre diceva qualcosa che, naturalmente, non ricordo. Ma ricordo che disse qualcosa al barista e pochi secondi dopo mi trovai in mano un bicchiere colmo di whiskey a brindare col simpatico sconosciuto, il primo di una lunga serie.


Devo essermi appisolato per qualche minuto sul bancone, e quando mi sono svegliato il locale stava già iniziando a svuotarsi. Nessuna traccia del ragazzo, solo alcune banconote stropicciate lasciate sul bancone.


Mi faceva male la testa, e avrei voluto ben vedere!


Chiesi al barista quanto gli dovevo ma fece un cenno che lasciava intendere che era già stato tutto sistemato. Mi rivolse un sorriso un po' triste, poi scomparve nel retro del bar, dove doveva trovarsi la cucina.


Notai vicino alle banconote alcuni biglietti, neri e con una scritta grigio scuro dai caratteri eleganti. Li aveva lasciati il barista? O forse era stato il ragazzo di prima?


Ne presi uno per esaminarlo, La carta era opaca, tranne in corrispondenza delle lettere, lucide.


Erano ingressi gratuiti (una scritta recitava addirittura "all-inclusive ticket") per un locale che si chiamava "Black Ice". Sul retro del biglietto un indirizzo, un numero di telefono e una piantina stilizzata. Poco più sotto una scritta in una scura tonalità di rosso recitava "L'ingresso è vietato ai minori di 18 anni".


Un night club.


Me ne stetti per qualche minuto col mento sul bancone, fissando il biglietto attraverso il vetro dell'ultimo bicchiere di whiskey irlandese che mi ero scolato. Da quando mi ero trasferito in quella città non mi ero mai avventurato in posti come quelli. Avevo scoperto che non facevano per me quando una sera di 15 anni prima, per il mio diciottesimo compleanno, alcuni amici mi avevano convinsero a lasciarmi andare ed entrare con loro in un piccolo night club di periferia.


Sembravano passati secoli da allora.


Mentirei se dicessi che non so cosa mi spinse a prendere uno di quei biglietti e ficcarmelo nella tasca del giaccone di pelle. Da una parte c'era pura e semplice curiosità fanciullesca, alimentata da tutto l'alcool ingerito quella sera. Dall'altra parte c'era quel costante senso di solitudine che mi stringeva il petto ogni notte di quell'infinito inverno.


Ma pensandoci ora c'era sicuramente anche altro, qualcosa che aveva a che vedere con l'autodistruzione, la negazione di se stessi. Un sentire più "decadente" che "punk" forse, ma la sostanza non era molto diversa. Niente nella mia vita andava come avevo sperato, per quanti sforzi facessi, e qualcosa dentro me doveva aver deciso che era inutile continuare a fingere. Tutto ciò che ero, tutto ciò in cui credevo, mi aveva portato a quel punto morto. Che senso aveva continuare ad essere me stesso?


Ma queste, come dicevo, sono considerazioni che faccio solo ora mentre scrivo su questo foglio di carta... seduto a quel bancone dovevo aver pensato semplicemente "perché no?".


Uscii dal locale, rigirandomi tra le dita quel biglietto. L'aria si era fatta più tesa, e fredda. Saranno state circa le 2 di notte e la città stava iniziando a svuotarsi. La mia testa era pesante, ma mi reggevo ancora più che dignitosamente in piedi. Era ora di rincasare e di lasciar perdere ogni stramba fantasia. L'indomani avrei dovuto svegliarmi alle 6 come tutti i giorni e sapevo già che sarebbe stata dura.


Mi avviai verso la fermata della metro, lasciando cadere il biglietto in un cestino a bordo strada.


Stavo già scendendo gli scalini della West End Station quando decisi che in fondo un giretto, per curiosità, avrei potuto anche farlo. Questione giusto di mezzora, per farmi un ultimo goccio in un luogo probabilmente più esotico di un pub irlandese qualsiasi, e poi me ne sarei tornato di corsa a casa.


Tornai sui miei passi, e trovai il biglietto sul marciapiedi a poco distante dal cestino. Dovevo essere decisamente brillo se non ero riuscito a centrare un cestino dalla distanza di 10 centimetri, ma tutto sommato meglio così, mi ero risparmiato una penosa ricerca tra i rifiuti.


Diedi di nuovo un'occhiata all'indirizzo e alla cartina: il locale si trovava a cinque isolati da li, non più di venti minuti di strada.


L'aria fredda della notte mi strizzava i sensi, aiutandomi a ritrovare un po' di lucidità. Non servì a molto, ma sempre meglio di niente. La strada e i marciapiedi erano decisamente meno affollati di prima. Le persone per bene erano già a casa, pensai mentre trattenevo una risatina stupida, alcolica.


Man mano che avanzavo, lasciandomi alle spalle la familiare e luminosa uptown per raggiungere il Black Ice vedevo le architetture mutare, lasciando il posto a vecchie costruzioni di inizio secolo. Le strade si facevano più strette, e un po' più buie, illuminate di quando in quando dal bagliore blu dei lampeggianti di qualche pattuglia della polizia che scivolava sull'asfalto nero e bagnato. Nessun inseguimento, solo lente ronde di controllo.


Giunto in quelli che pensavo fossero i pressi del locale dovetti tirare di nuovo fuori il biglietto e osservare bene la cartina per riuscire a trovarlo. Mi infilai in un dedalo di viuzze strette, illuminate poco e male da lampade fissate sugli altissimi muri in mattoni. Sembrava di trovarsi in un labirinto, avevo continuamente la sensazione di aver sbagliato strada, o di esser già passato più volte per lo stesso punto, ma alla fine ce la feci.


Spuntai in una larga via deserta: nessun passante, nessuna automobile, e i rumori della città arrivavano ovattati, lontani. I lampioni sul bordo della strada illuminavano la scena con una brillante luce bianca ma sulla linea elettrica doveva esserci qualche problema perché le estremità della strada erano al buio, letteralmente ingoiate dalla notte. Era un'atmosfera strana, essere da solo in quel posto non mi piaceva, eppure pareva non esserci nessun pericolo: non c'erano tossici o ubriaconi accasciati vicino ai lampioni, nessuna gang di delinquenti a caccia di prede facili, niente di niente.


Ma penso che fosse questa totale assenza di vita ad inquietarmi. E quel buio. Nel silenzio, mi pareva quasi di avvertire un ronzio, ma non capivo se proveniva dai lampioni o se era nella mia testa.


L'insegna del Black Ice campeggiava nera ed enorme sul muro dell'edificio che si stagliava di fronte a me. Un palazzo imponente, austero, vecchio, un fantastico esempio di architettura governativa di inizio secolo. Avrebbe potuto essere un vecchio ufficio del catasto, o una stazione di polizia. E adesso era.. beh era quel che era. Il cielo attorno al palazzo, illuminato nei piani più alti da alcuni faretti, era nero. Non blu, nero, e senza stelle, senza tracce delle altre luci della città, tanto da farmi dubitare per un attimo che ci fosse realmente una città dietro quel palazzo.


Attraversai la strada, e man mano che mi avvicinavo all'ingresso di quel vecchio palazzo il ronzio si faceva sempre più forte, quasi assordante.


Aveva qualcosa di elettrico, ma poteva ricordare anche il ronzio di certi sciami di insetti.


Avevo inoltre la sgradevole sensazione di essere seguito, di sentire dei passi, ma quando mi girai non c'era naturalmente nessuno, solo l'ingresso del vicolo dal quale ero sbucato, nero anch'esso come le estremità di quella via deserta e come il cielo di quella notte. Con ogni probabilità i passi che avevo sentito erano i miei.




In quel frangente pensai che avrei fatto meglio a lasciar perdere quel maledetto biglietto, che in quel momento avrei potuto essere nel mio appartamento, seduto sulla poltrona a guardare un film in attesa che la sbornia passasse. Perché iniziavo ad averne abbastanza di quel cielo nero, del freddo, del ronzio, di quella desolazione, e tutto quello che avrei voluto fare era andarmene.


Ma non me ne andai, naturalmente.


E' banale ridurre le motivazioni a semplice curiosità per quello che avrei trovato nel locale, c'era altro... in fondo tutto quello che avevo fatto quella sera portava con se un sottile senso di ineluttabilità. Semplicemente, dovevo entrare.


Un elegante tappeto rosso scuro arrivava fino alla colossale porta d'ingresso. Era di legno, con specchiature in vetro opaco decorate con eleganti motivi floreali, e aveva due grosse maniglie in ottone. Le toccai, e il ronzio scomparve immediatamente. Attraverso le ampie vetrate si intuiva l'atrio del locale, illuminato da luci soffuse, e nel rinnovato silenzio sentivo provenire dall'interno voci, risate, tintinnare di bicchieri e musica jazz, un vecchio standard suonato egregiamente.


Fermo, con le mani sulle grosse maniglie d'ottone, mi resi conto che il cuore mi batteva forte. Mi feci coraggio ed entrai.


La porta si chiudeva lentamente alle mie spalle, mentre venivo avvolto da un piacevole tepore profumato che sciolse in pochi secondi tutti i muscoli irrigiditi per il freddo e la tensione. Mi resi conto che anche la sbornia era quasi passata, lasciandomi come ricordo un lieve mal di testa pulsante.


Davanti a me un signore in abito elegante e i capelli impomatati mi diede il benvenuto da dietro un piccolo mobiletto che faceva da reception. Tutto attorno appesi ai muri c'erano foto in bianco e nero di splendide ragazze avvolte in pellicce o boa piumati.


Gli mostrai il biglietto. Mi disse che ero in ritardo, ma che avrei comunque potuto gustarmi il secondo spettacolo, che sarebbe iniziato tra una ventina di minuti. Sorrise e poi, accennando un leggero inchino, mi invitò a varcare la soglia del salone principale.


Ero frastornato: il lacchè, le foto in bianco e nero, le piante ornamentali...era tutto lontano anni luce da quello che mai avrei potuto immaginare di trovare in un locale notturno dei sobborghi di questa città.


Seguii il pinguino impomatato che mi accompagnò giusto per pochi passi nel salone principale, per poi tornare al suo lavoro. Ricordo che fui impressionato dalle dimensioni del locale: la struttura del salone ricordava quella di un vecchio teatro, ma era enorme, con un soffitto altissimo e quattro file di loggioni adornati da tende di velluto. Tutte attorno lampade in stile liberty, che illuminavano con luce fioca e calda il locale.


Alla mia destra un banco bar che sembrava non finire mai, con quattro barman impegnati a servire la clientela. Alle loro spalle, file interminabili di bottiglie poggiavano su mensole in cristallo illuminate ad arte che creavano favolosi giochi di luce.


Al centro del salone c'era un ampio palco leggermente rialzato. Immaginai che lo "spettacolo" si sarebbe svolto proprio li sopra. Fu una piacevole sorpresa scoprire che la musica non proveniva da altoparlanti, ma da una vera e propria band, che suonava poco distante dal palco. Avevano appena attaccato con un nuovo pezzo, qualcosa di Glen Miller questa volta.


Mi mossi in direzione del bar, non tanto per un reale desiderio di bere qualcosa, quanto per non continuare a rimanere fermo come un idiota davanti all'ingresso del salone.


Il locale era affollatissimo, tanto che faticai a trovare uno sgabello libero al banco. Ordinai una spremuta, e il barman mi scrutò per una frazione di secondo con uno sguardo tra l'interrogativo e il divertito, ma non fece obbiezioni.


Stavo iniziando a rilassarmi. L'aria seducente e sorniona di qul posto aveva in pochi minuti rimosso il ricordo dello strano mondo buio che stava la fuori...


Se mi fossi soffermato a pensare a come poteva essere arrivata li tutta quella gente, considerato il fatto che davanti al locale non c'era neppure l'ombra di un'auto, forse qualche campanello nella mia testa avrebbe tintinnato. Avrei anche potuto pensare che altri fossero arrivati a piedi come me, ma non sarebbe stata una scusa plausibile per tutti i clienti.


La sbornia sembrava essere ormai passata del tutto, e sorprendentemente non avevo neppure sonno. Controllai l'orologio, che segnava le 2:30. Mezzora, non mi sarei trattenuto di più.


Sorseggiavo il mio "drink" con le spalle rivolte al bancone, osservando ora con più attenzione la ricca clientela del locale e le bellissime ragazze che passeggiavano eleganti tra la folla, sorridendo maliziosamente a chi incrociava il loro sguardo.


I loro costumi di scena erano favolosi, sembravano provenire dal guardaroba di qualche studio di Hollywood. Leonesse, amazzoni con tanto di scudo e lancia, copie viventi di Greta Garbo, sacerdotesse egiziane, infermiere o antiche patrizie romane.


Molte di loro intrattenevano già le loro prede designate: in piedi vicino al bar o sedute sugli ampi divani in pelle che circondavano la pista, sorridevano, ammiccavano, discutevano amabilmente, abbozzavano il broncio se la vittima accennava a volersene andare, e si lasciavano scappare risate cristalline quando riuscivano a convincerla a restare, e magari a seguirle nei locali privati del locale lassù, nel loggione più in alto


Sorridevo tra me e me, perché per quanto curata, affascinante, eccitante, alla fine si trattava pur sempre di una farsa, dove ognuno recitava (più o meno coscientemente) la propria parte seguendo cliché vecchi forse 100 o 1000 anni.


E mi divertivo ad osservare la scena come se fossi un semplice spettatore, quasi come se io stesso non mi trovassi realmente li.


"Non per farmi gli affari tuoi ma... è succo d'arancia quello?"


Mi voltai in direzione della voce. Una ragazza aveva appena raggiunto il banco del bar per ordinare qualcosa da bere e mi stava rivolgendo un sorriso luminoso, dolce, in attesa di una risposta.


Ero impreparato, e fui in grado di balbettare solo un "si" malconcio. Era vestita da soldato russo, una divisa invernale della seconda guerra mondiale, grigio-verde, con tanto di cappotto, e mi chiesi come potesse non soffocare li dentro con tutti quei vestiti addosso. Aveva gli occhi azzurri e i capelli lunghi, mossi, color miele. Non aveva un filo di trucco, ed inutile dire che era bellissima. Ordinò anche lei un succo d'arancia.


Mi chiese se mi piaceva il locale, e se fosse la prima volta che venivo li. Parlammo del più e del meno, io le chiesi come si trovasse sepolta in quel costume di scena, lei mi parlò della band di musicisti del locale, e ridemmo un po'. Poi si fece seria. Guardò nel bicchiere semivuoto, e mi disse che non avrei dovuto essere li, che non avrei dovuto venire in quel locale. Credevo fosse uno scherzo e stavo per replicare, ma mi guardò negli occhi. Era seria, e aveva uno sguardo un po' malinconico."Ma ormai è tardi. Goditi lo spettacolo, ci vediamo tra mezzora ok?" Cercò di abbozzare un sorriso ma non fu molto convincente, e se ne andò.


Non capivo cosa intendesse, ed ero frastornato non so ancora se dalla sua bellezza, dal suono della sua voce o se da quell'ultimo sguardo triste. Ormai era chiaro che non ero più uno spettatore esterno, e che in quella farsa avevo un ruolo anche io.


Guardai in direzione del palco, e mi accorsi ora che tutto attorno ad esso erano stati disposti drappi rossi alti almeno un paio di metri. Un presentatore in frac, non molto alto e con i baffetti alla Clark Gable, illuminato da un fascio di luce forse un po' troppo forte, annunciò l'inizio del secondo spettacolo.


Le luci si abbassarono di colpo, e drappi caddero. Un'esplosione fragorosa inondò il locale, e in fondo al palco delle lingue di fuoco eruttarono dal cratere di un enorme vulcano alto almeno 3 metri. Pian piano faretti disposti ad arte illuminarono la foresta africana ricostruita ad arte. Arrivarono le leonesse, le cacciatrici, le indigene, le donne alligatore, e iniziarono le danze.


Non durò molto, ma fu uno spettacolo magnifico, con una grande carica erotica ma senza l'ombra di volgarità, e con effetti scenografici degni di uno spettacolo di Broadway. Si congedarono con un inchino, le luci si spensero di nuovo, e quando dopo pochi secondi si riaccesero era tutto tornato come prima. Nessun'ombra di vulcani, palme, pellicce o fucili per terra.


La ragazza tornò da me qualche minuto dopo. Aveva in mano un bicchiere pieno di una sostanza giallognola che sembrava whisky.


"Non preoccuparti, è solo succo di mela. Prendi, avrai sete: sono 10 minuti che tieni in mano quel bicchiere vuoto".


Risi di gusto, e la ringraziai. Il succo era fresco e dolce. Ci fù qualche attimo di silenzio. Poi distolse sguardo, concentrandosi sulla fila di bottiglie alle mie spalle, e mi disse "Sono venuta a prenderti, abbiamo ancora un po' di tempo prima che il locale chiuda".


La guardai e indicai l'ultimo loggione "Intendi lassù?"


Annuì, poi prese il bicchiere dalla mia mano e scolò l'ultimo goccio di succo. "Non hai altri impegni, o sbaglio?"


In un attimo fui letteralmente invaso da un turbine di sensazioni contrastanti. Provavo una sorta di euforia, una strana eccitazione mista ad imbarazzo, e qualcosa che assomigliava molto da vicino alla paura, e della quale non intuivo l'origine. Doveva essere una sensazione non molto diversa da quella che può provare un paracadutista al suo primo lancio nel vuoto.


Le dissi che no, non avevo altri impegni, e lei mi prese per mano, stringendola un poco. Scivolammo tra la folla diretti verso il retro del palco, alle spalle della band.


In fondo era per questo che ero venuto qui, no? La scusa dell'ultimo bicchiere in un posto esotico era la più banale che potessi raccontare a me stesso. La realtà è che volevo solo lasciarmi andare, provare finalmente sensazioni che non fossero rabbia o frustrazione per una vita che non andava esattamente come avevo previsto. Ed ero conscio dell'artificialità di tutto quanto, o se vogliamo della sua "teatralità", ma decisi che non me ne importava nulla.


Le scale in legno, a chiocciola, erano ripidissime e sembravano non dover finire mai. Arrivato all'ultimo piano dovetti fermarmi a riprendere fiato, e mi rincuorò vedere anche lei, ben più giovane di me, leggermente in affanno. Mi fece cenno di seguirla.


Camminavo in silenzio al suo fianco lungo un ampio corridoio semicurvo, che seguiva il profilo dell'atrio principale del locale. La musica e il vociare giungevano ovattati. Sulla nostra destra si trovavano gli ingressi ai vari settori del loggione, protetti da pesanti drappi di velluto rosso. Uno di questi, circa a metà corridoio, era aperto, e la ragazza entrò trascinandomi dolcemente per un braccio.


La stanza era illuminata da luci basse e calde, c'era un enorme divano con davanti un tavolino, con sopra un vaso di enormi fiori bianchi, una bottiglia dall'aspetto decisamente costoso e due bicchieri.


Chiuse con un rapido movimento le tende, legandole tra di loro con un grosso cordone dorato, e forse solo in quel momento compresi che li dentro eravamo soli, io e lei. Era ferma davanti a me, con la sua uniforme ancora ermeticamente chiusa come se fosse appena tornata da una ronda notturna nel gelo di Stalingrado. Se ne stava li ferma, nella penombra, sorridendo un poco, ed era bellissima. Tanto da farmi quasi dimenticare in che tipo di posto mi trovassi, chi fosse lei...e chi fossi io.


Mi avvicinai a lei, improvvisamente avevo voglia di stringerla. "Sei stato stupido, non avresti dovuto venire qui...questo... questo non è un posto per te." Disse queste parole con un tono dolce e rassegnato. Aveva detto una cosa simile anche giù, al bancone del bar. Ora come prima non capivo cosa volesse dire, ma probabilmente saperlo non avrebbe cambiato le cose.


Ormai le nostre labbra erano vicinissime, aveva un profumo meraviglioso. Ci sfiorammo, delicatamente, studiandoci un poco. Avvicinò le mie mani ai bottoni del suo pesante cappotto, invitandomi a slacciarlo, ed iniziammo a baciarci.


Sotto il cappotto indossava il resto dell'uniforme, e fu un compito tanto lungo quanto piacevole quello di sfilarle poco a poco tutti gli indumenti. Lei indossava ancora i pantaloni e gli stivali quando decise che era il suo turno.


Mi spinse all'indietro, facendomi cadere sugli enormi cuscini che si trovavano sul pavimento in moquette, facendo in modo che la guardassi dal basso verso l'alto. Aveva un seno magnifico, e i capelli color oro le scendevano morbidi sulle spalle. Mi aveva in pugno e lo sapeva. Ci baciammo di nuovo, in modo appassionato, e non eravamo ancora totalmente svestiti quando scivolai dentro di lei.


L'incubo iniziò alcuni minuti dopo, mentre eravamo ancora stretti l'uno all'altra. Vidi le luci della camera tremolare, vibrare, poi una visione agghiacciante. Mi trovavo in una vecchia stanza semibuia, su un letto di stracci luridi. Lei era li, le sue mani artigliavano ancora dolcemente la mia schiena, i suoi seni premevano contro il mio petto, i suoi occhi erano chiusi e stava gemendo col capo leggermente reclinato all'indietro. La sua bocca era sporca di una sostanza scura, che le scendeva in rivoli densi sul collo. Notai le due sottili lame bianche, anch'esse incrostate di quella sostanza, che uscivano dalla bocca. Due canini lunghissimi. Nella fredda penombra vidi che i suoi capelli erano neri e corti, e che la sua pelle era bianchissima, e segnata da vene violacee che pulsavano al ritmo del suo respiro.


Poi finì tutto, ed ero di nuovo nel lussuoso loggione del Black Ice. Ero coricato sui cuscini, coperto da un lenzuolo bordeaux, e lei era seduta alla mia destra, con le gambe strette al petto e mi guardava con la testa appoggiata sulle ginocchia.


Il mio respiro era affannoso, quello che avevo visto, qualsiasi cosa fosse, mi aveva terrorizzato. Mi tastai il collo e il petto in cerca di ferite, ma non ne trovai. Feci per dire qualcosa, ma lei appoggiò piano un dito sulle mie labbra. Poi si avvicinò.


Mi irrigidii, avevo paura. Ma appoggiò semplicemente le sue labbra sulle mie. Il panico si dissolse poco a poco. Mi abbracciò, e restammo così, in silenzio, per qualche minuto. Poi devo essermi assopito, e quando mi svegliai lei era già vestita di tutto punto, seduta sul divano. Mi guardava.


Mi rivestii anche io, e sempre in silenzio uscimmo da quella stanza. Giunti vicino alla scala mi disse che dovevo scendere da solo: il locale stava per chiudere e dopo una certa ora le era impedito di tornare nel salone principale. Ero già sul primo gradino quando mi disse "Vorrei non vederti mai più, ma so che non sarà così...", poi si voltò e la guardai avviarsi lungo il corridoio.


Nel salone principale c'era ancora parecchia gente, ma indubbiamente meno di prima. La band aveva appena finito di suonare l'ultimo pezzo, e si stava congedando.


Era ora di tornarmene a casa, non sapevo neppure che ore fossero. Pensai che probabilmente avrei potuto andare direttamente al magazzino... ad occhio e croce la fuori stava già iniziando ad albeggiare.


Mi avviai verso l'uscita, cercando di farmi strada nella la calca del locale. E poi capitò di nuovo: le luci tremolarono e per una frazione di secondo mi trovai in uno stanzone enorme e buio, con le uniche luci che provenivano da vecchie finestre che davano sulla strada. Tutto era decrepito, lercio, maleodorante. Sembrava che la folla che mi circondava non si fosse accorta di nulla. Quello che vedevo esisteva solo nella mia testa, oppure loro semplicemente non si accorgevano di nulla? Continuavano come se niente fosse a discutere, a scherzare, a ridere, a sorseggiare cocktail dai loro bicchieri, ma io vedevo che quei calici erano vuoti, opachi e rotti, che i loro vestiti erano logori almeno quanto i loro volti sorridenti ma segnati da sofferenze inenarrabili, da tragedie familiari, da sogni infranti, dalla solitudine, da vizi, da dipendenze.


Vidi tutto questo in una frazione di secondo, poi tutto tornò alla normalità.


Raggiunsi di corsa, spaventato, l'atrio d'ingresso del locale. Il lacchè mi rese il giaccone in pelle, e mentre mi augurava, sorridendo, la buona notte cercai sul suo volto quelle orribili vene pulsanti e quei denti aguzzi, ma non ne trovai traccia.


Uscii dal Black Ice, ed era incredibilmente ancora notte. Ancora nessuna auto, e ancora quella desolazione. Nessun ronzio, ma sapevo che era in agguato da qualche parte.


Mi tuffai senza pensarci nel nero minaccioso del vicolo dal quale ero arrivato: avevo paura e volevo solo mettere più asfalto possibile tra me e quel locale.


Non sapevo cosa avessi visto in realtà, ero propenso a credere che si trattasse di visioni indotte da un mix di stanchezza e alcool. Diedi la colpa anche agli incensi che profumavano gli ambienti del loggione: avrebbero potuto contenere oppiacei o sostanze simili.


Ma anche se fossero state solo frutto della mia immaginazione, che si è divertita a mescolare la realtà con immagini prese in prestito da horror di serie B, le cose che avevo visto avevano scavato nel profondo delle mie paure, raggiungendo luoghi che solitamente si visita solamente quando si è piccoli e si ha paura del mostro nascosto nell'armadio o sotto il letto.


Questi pensieri si affollavano nella mia mente mentre correvo a rotta di collo in quei vicoli tortuosi. Raggiunsi George Street dopo un tempo che mi sembrò infinito: avevo il cuore in gola, ero senza fiato. La milza sembrava voler esplodere da un momento all'altro e mi lanciava continue violentissime fitte di dolore.


Mi sedetti con le spalle al muro per riposarmi un poco, e mi resi conto che era giorno. Il campanile della chiesa indicava le 8:30, ed era una luminosa mattina d'inverno, di quelle che non si vedevano da tempo. Il marciapiede era invaso dalla folla che si recava a far colazione o al lavoro, il giornalaio di fronte si stava tirando la pelle e un vigile stava facendo attraversare la strada ad un gruppo di bambini armati di zaini colorati, cuffie e guanti.


Mi ci volle qualche minuto prima di riuscire a rialzarmi. Decisi di andare direttamente al magazzino, il capo sarebbe stato su tutte le furie ma non mi andava di nascondermi dietro un telefono.


Quando arrivai, quasi alle 10, cercai di scusarmi ma (come immaginavo) fui investito da un fiume di improperi e di urla, e dalla promessa che questa sarebbe stata la prima ed ultima volta: al prossimo sgarro mi avrebbe sbattuto per strada con un calcio nel culo.


Andai a cambiarmi nello spogliatoio, saltai sul mio muletto e feci il mio dovere fino alle 18 senza quasi fermarmi.


Credo che a tenermi sveglio fosse solo l'adrenalina causata da quello che avevo vissuto quella notte e dalla paura di perdere il posto di lavoro. E il pensiero di lei, che non mi abbandonò tutto per tutta la giornata. Quando tornai allo spogliatoio e aprii l'armadietto sentii il suo profumo ancora sui miei vestiti, e quello fu il colpo di grazia: ero indiscutibilmente terrorizzato da quel luogo, ma avevo già bisogno di rivederla, un bisogno quasi doloroso.


Me ne tornai a casa, buttai i vestiti nella lavatrice e mi feci una doccia bollente.


Presi dal frigorifero una birra e mi preparai un panino mentre guardavo alla tv la replica di una vecchia puntata di Friends.


Stavo cercando di mettere in un angolo i ricordi di quella notte da incubo e da sogno, e per quella sera funzionò.


L'adrenalina mi abbandonò all'improvviso poco dopo aver finito quella succulenta cena. Sprofondai sfinito nel mio letto e mi svegliai da quel sonno senza sogni solo alle 5 della mattina seguente.


Sono passate tre settimane da allora, e la forza di volontà sta avendo la meglio sul desiderio (folle, dissennato) di tornare al Black Ice. Penso ancora a lei, ma riesco a tenere a bada i ricordi.


Al lavoro sembra essersi tutto sistemato. Oggi nella pausa pranzo il capo si è complimentato per come ho risolto alcune problemi al magazzino centrale, e mi ha addirittura chiesto scusa per quella sfuriata.. quasi non credevo alle mie orecchie. Che le cose inizino finalmente a girare per il verso giusto?


Non ho mai tenuto un diario, semplicemente perché non ho mai trovato la mia vita tanto interessante da dover scrivere alcunché che mi riguardasse... ma quello che è successo quella notte è stato terribile e bellissimo, e credo di aver fatto bene a prendere in mano la penna per raccontarlo.


Chissà se rileggerò mai queste pagine?

[segue nel post successivo]