Ed io essendo povero ho solo i miei sogni e i miei sogni ho steso ai tuoi piedi. Cammina leggera perché stai camminando sui miei sogni. (Yeats)
Era mattino presto, albeggiava, ed ero seduto al tavolo di una vecchia locanda. Il pavimento era fatto di assi di legno, consunte e cigolanti sotto i passi dei pescatori al ritorno dalla battuta mattutina.
Erano tutti giovani uomini, enormi, con sorrisi sinceri seminascosti dalle barbe bionde, berretti di lana calati quasi fin sopra occhi sereni e soddisfatti, nonostante la stanchezza.
Parlavano una lingua che non capivo, forse era svedese, e scherzavano con la donna che dall'altro lato del bancone sorrideva e porgeva a loro enormi tazze di caffè fumante.
Attorno a me, tavoli rotondi di legno scuro e antico come quello del bancone, e le semplici robuste sedie accatastate sopra di essi. Dalle finestre del locale entrava una malinconica luce grigia, sui vetri le prime goccie di pioggia, e all'orizzonte il mare, ancora più grigio e striato della schiuma delle onde. In lontananza, navi cargo.
Davanti a me una grande tazza di caffè nero, e dall'altro lato del tavolo una ragazza dai lineamenti dolci. Aveva gli occhi azzurri, i capelli biondo cenere, lunghi e mossi, e teneva tra le mani un quaderno rilegato in pelle.
Era incinta, aspettava una bambina. Sfogliava con me le pagine di questo diario, pieno dei pensieri scritti con una biro blu, in una calligrafia tonda ed elegante, e c'erano disegni colorati di fiori e farfalle, e sorrideva, e gli occhi le brillavano di un amore che forse non avevo mai visto in vita mia, o riconosciuto.
Era un regalo, per sua figlia. Voleva che un giorno potesse leggere tutto ciò che era stata sua mamma in quei 9 mesi in cui l'ha cresciuta nel proprio ventre, e mentre mi raccontava queste cose io tenevo stretta la tazza di caffè bollente tra le mani, quasi fino a farmi male, per riuscire a non commuovermi di fronte a lei, soverchiato dalla purezza del suo cuore, e da una strana, inspiegabile malinconia che cresceva tanto più la osservavo, radiosa, mentre sfogliava quelle pagine.
Esterno giorno, primavera, sole, un grande tavolo imbandito all'aperto nel cortile di una vecchia latteria. Il cancello, poi la strada, poco trafficata, grigia e piena di buchi, e poi campagna, tutto attorno a noi. Avevo finito di pranzare, e avevo deciso di fare una passeggiata attorno alla grande costruzione di cemento armato dove vengono stipate le forme di formaggio. Lontano dal tavolo, il silenzio sembrava quasi innaturale, spezzato solo dal frinire delle cicale. Mi ero accorto che il sole stava già calando, ed era strano... solo pochi minuti prima era pieno pomeriggio. Mi avvicino ad un fabbricato che ricordava un grosso garage, e scorgo all'interno alcuni dipendenti della latteria. Stranieri, carnagione scura, rasati, folte barbe nere. Sembravano seccati dalla mia presenza, uno di loro copre con un telo quello che stavano osservando prima che arrivassi. Una cassa di legno, di quelle che vengono imbarcate via aereo. Mi accorgo che uno di loro ha in mano una spranga di ferro, e fa per muoversi nella mia direzione. Nessuno degli altri lo ferma, e dopo alcuni passi inizia a correre verso di me brandendo quell'arma improvvisata. Scivolo sulla ghiaia mentre cerco di girarmi, con la coda dell'occhio vedo che anche gli altri si stanno muovendo. Imbracciano quelle che sembrano armi automatiche leggere, un paio di loro indossano maschere antigas. Corro più veloce che posso, raggiungo il tavolo ancora imbandito mentre la sera mi rovina addosso tutta in un colpo. Urlo a squarciagola agli altri di scappare, mi guardano con espressioni interrogative fino a quando si accorgono dei miei inseguitori. Iniziano a correre tutti verso il cancello d'ingresso, sento degli spari, hanno fatto saltare le luci che illuminavano lo spazio antistante la latteria, e piombiamo tutti in un buio pesto, non si vede più nulla. Urla alle nostre spalle, in arabo, altri spari, le pallottole mi fischiano attorno, alcune si conficcano negli alberi con umore sordo. Mi giro, hanno vessilli infuocati, che illuminano di giallo e di rosso le loro maschere antigas. Ora le indossano tutti. Il granoturco sull'altro lato della strada è alto, mi infilo a velocità folle tra i fusti con il cuore in gola, mentre dietro di me sento cani che abbaiano rabbiosi, neri (lo so), e feroci.
Dovevo solo fare colazione con un caro amico, che era tornato in Italia da Londra per qualche giorno, attorno alle feste di Natale. Mi manda un sms: "Dai, raggiungici al bar vicino alla stazione di servizio". Era tardi, quasi ora di pranzo, ma assicuro mia mamma che sarebbe stata una cosa veloce, giusto un cappuccio e una brioche con Luca e Alessandro. Salgo in macchina e imbocco la strada provinciale che porta al bar. Ma il cielo era innaturalmente azzurro e brillante, e quella che doveva essere una piattissima, normalissima strada provinciale della pianura padana si alza, sempre di più, e diventa un enorme infinito ponte sospeso. Quasi ma manca il respiro nel salire su questo ponte inaspettato, un po' come quando sull'ottovolante di Gardaland sali sali, e tutto la sotto diventa sempre più piccolo.
Anche le nuvole sono diverse, bianche come panna, e con quella caratteristica forma "oceanica"... piatte sotto, gonfie e altissime sopra. Scendo da questo ponte e scopro che fa parte di un gigantesco reticolo di strade e incroci sovrapposti, architetture stradali folli, simili a quelle che si possono vedere alle porte delle grandi città americane. E a tutti gli effetti, non potevo decisamente trovarmi a soli 2 km da casa... alla mia sinistra c'era l'oceano, mentre alla mia destra, oltre al parcheggio circondato da alte palme e un prato curatissimo, Luca ed Alessandro mi aspettavano seduti sotto un grande ombrellone color panna, al tavolino del famoso "bar vicino alla stazione di servizio". Stazione di servizio che non ho visto, ma ero troppo inebetito da tutto quello splendore verde e azzurro e bianco per farmene un problema.
Fa caldo sulla spiaggia semideserta. Lo sciabordio del mare si mescola al canto dei gabbiani in lontananza, e il vento è giallo di sole e dolce. E' coricata di fianco a me, sonnecchia serena. L'ultimo bagno le ha tolto la crema solare, e mi sono offerto di darle una mano a spalmarsela di nuovo, almeno sulla schiena, suvvia. Ha sbuffato poco convinta e poi mi ha lasciato fare, sorridendo un po'. Le scosto i lunghi capelli, qualche goccia di crema e poi e lascio scorrere le mie mani sulla sua schiena. Delicatamente le slaccio il reggiseno, facendo cadere i laccetti ai lati. Mi chiedo se stia realmente dormendo o se fa solo finta. Sorridendo, resisto alla tentazione di darle un bacio sul segno rosso lasciato dal gancetto, e di morderle piano quel collo esile ed elegante. E' splendida e fatico a distogliere lo sguardo da lei, dalla sua pelle, dalla curva dei seni che si scorge sul fianco.
Allora guardo la collina di fronte a me, selvaggia e rigogliosa, col verde delle piante e l'azzurro del cielo sbiaditi dalla foschia estiva, umida e calda. E' proprio necessario svegliarsi?
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