Una serata passata sulla spiaggia, c'era una festa, c'erano fiaccole e gente che rideva. Il ricordo sta già sbiadendo, e sono passate solo poche ore.
La camera squallida di un vecchio hotel, la luce giallognola dell'abat-jour, il letto ancora sfatto dal pomeriggio. Non ricordo neanche più il suo nome, ma che importa, forse neppure me l'aveva detto. Sono seduto davanti ad un vecchio scrittoio, residui di sabbia ancora tra le dita dei piedi, indeciso se farlo di nuovo, o meno.
Ma in realtà la decisione l'avevo già presa quando sono montato in auto per venire fino a qui, anche se ancora non sapevo dove sarebbe esattamente stato, il qui. Sapevo solo che volevo il mare.
Vado alla finestra, e la apro. Da qui si sentono le onde, ho scelto questa topaia proprio per questo motivo. Le dita tremano attorno al tappo nero, il solito miscuglio di terrore ed eccitazione, sono secondi che sembrano durare secoli, ma in realtà è questione di pochi minuti. Il liquido scende giù per la gola, brucia, e contemporaneamente lo sento insinuarsi nel mio cervello, stringendolo prima come una morsa, e facendolo poi esplodere in mille scintille luminose. Ogni volta il cortocircuito è più forte, un giorno mi sarà fatale lo so, ma non mi importa più nulla da mesi ormai.
Riesco a fatica a raggiungere il letto, mi corico sulle lenzuola ancora madide del sudore del pomeriggio, e nel momento esatto in cui la testa sfiora il cuscino vengo investito da un turbine di sabbia digitale, grigia e finissima, interferenze elettrostatiche invadono il mio campo visivo, e il mondo attorno a me si squarcia. Nuvole color piombo scorrono velocissime sopra di me, mentre a piedi nudi sulla spiaggia mi avvicino al molo. Le onde si infrangono rabbiose sulle assi di legno nero, e il vento denso di sabbia mi rende difficile respirare, come se stessi avendo una terribile crisi d'asma.
C'è un vecchio aborigeno, in piedi, in fondo al pontile. Indossa un frac elegante, di una o due taglie più grandi della sua, e tiene in mano dei fogli, all'altezza del petto. Mi sorride, e quando mi avvicino inizia a far scorrere questi fogli, uno dopo l'altro.
"Perchè sei qui?" recita il primo foglio. Provo a rispondere, ma la mia voce viene igoiata dal frastuono del vento e delle onde. Il secondo foglio dice "Tempo". Il vecchio mi sorride, ma è un sorriso triste, malinconico. Negli altri fogli vedo un funerale, io che piango, ho i capelli grigi. E capisco, mentre una fitta di dolore mi attraversa il costato. Vedo una vecchia casa, abbandonata. Il prato dove da piccolo giocavo con i mei fratelli invaso da erbacce e vecchi pneumatici bruciati. Il dolore al costato si fa ancora più forte, insopportabile. Poi vedo una foto di mia nonna, che mi tiene in braccio orgogliosa. Avrò avuto 2 anni. Non ce la faccio, cado sulle mie ginocchia, e mentre le mie unghie si aggrappano alle assi fradice inizio a piangere. Sento la mano del vecchio sulla spalla, è un tocco lieve e allo stesso tempo tremendamente forte. Sull'ultimo foglio c'è scritto Ama. "E' l'unica cosa che conta veramente", mi dice, prima di andarsene.
Mi sveglio, ancora tremante... le lacrime hanno il sapore salato del mare. Scendo le scale, è l'alba. Uno degli inservienti dell'hotel mi saluta, mentre esco a guardare il sole. E' ora di tornare a casa.
RispondiEliminase ci si deve ubriacare, almeno che sia una balla allegra
uffa
Concordo con mezzastrega...
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RispondiElimina@Streghetta & Svivi: ma questa ERA allegra ;-)
RispondiEliminanota sull'agenda in rosso fare molta attenzione a non trovarsi in prossimità di Stefano in balla triste!
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baci, però
Haha ti confesso una cosa Streghetta: raramente, ma mooooolto raramente le mia balle sono tristi... anzi! :-)
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