sabato 23 giugno 2012

L'onironauta

Il casco che ho in mano è nero, ha una finitura satinata, la visiera scura. La moto è sportiva ma non esasperata nelle linee... è arancione, probabilmente giapponese, 4 cilindri, a occhio da 200 cc l'uno. Salgo, accendo il motore premendo un pulsante e avverto una pacata aggressività nascosta tra le pieghe di quel suono pastoso, baritonale e accomodante. Non riesco a ricordarmi quando ho preso la patente, non so neppure se quella moto è mia o meno, ma non importa. Scendo verso la strada, allontanandomi dal muro bianco di recinzione di una grande villa. Oltre quel muro, enormi alberi proiettano la loro ombra sull'asfalto. Il colore delle foglie e la forma dei rami suggerisce che potrebbero essere ulivi, ma sono altissimi e più slanciati. Fa caldo, ingrano la prima marcia e sento il vento caldo avvolgermi. Accelero, la strada è sgombra e l'asfalto è nero e liscio. Le curve sono docili, i pendii delle colline dolci e io assaporo ogni piega dosando la giusta quantità di gas, mai esagerando, godendomi lo spettacolo del cielo azzurro che filtra tra i rami degli alberi e il profumo delle foglie che si intrufola nel casco.

Diventa improvvisamente sera, cade addosso al sogno come un pesante drappo di velluto blu scuro, e mi trovo a bordo della mia auto. E' ancora nuova, come 10 anni fa, e sto guidando su una delle vie principali della città, semideserta. Cerco di andare piano, ma l'auto continua accellerare come un cavallo imbizzarrito, e io provo a controllarla giocando con lo sterzo e con il cambio, ma finisco ogni volta contro un muro. Gli schianti sono violenti, rumore di lamiere piegate, vetri infranti e schegge di muro che picchiettano sul parabrezza. Ogni volta prendo fiato, faccio una piccola retromarcia, e provo a rimettermi in strada, prestando la massima attenzione alla pressione del mio piede sul pedale.
L'illusione di governare finalmente l'auto dura solo pochi secondi: il motore sale ancora di giri, vertiginosamente, io provo a lasciare il pedale ma è tardi e di nuovo uno schianto, questa volta sul lato opposto della strada. E ancora, e ancora, prima a destra, poi a sinistra. Io non sono ferito, non sento dolore, ma il mix di frustrazione e rabbia e impotenza per non riuscire a tenere l'auto in strada è soverchiante.

La città finisce, e l'auto sembra tornata ad essere docile. Guido su una strada di campagna che ho percorso mille volte, ma i pioppeti ora sono mangrovie. La luna nel cielo è piena e illumina l'asfalto lucido, tanto che potrei quasi guidare a fari spenti. C'è un ponte che passa sopra un canale di irrigazione, una sorta di piccolo fiumiciattolo dove da piccolo andavo a pescare assieme al mio più grande amico. E' scomparso quando aveva solo 20 anni, e ogni volta che attraverso quel ponte penso a lui.
Di fianco al ponte, prima dell'inizio della foresta di mangrovie, c'è una bettola con un grande portico sul fronte, illuminato da insegne al neon colorate. Ceres, Bacardi, Corona, Marlboro, i colori vibrano nella notte. Grossi insetti svolazzano e si friggono dentro un'enorme trappola elettrica, emettendo scariche blu. Entro. Dietro il bancone un gigante di colore sta pulendo alcuni bicchieri. Cammino sulle assi di legno. Una ragazza mulatta è seduta su uno sgabello, il gomito appoggiato vicino ad un bicchiere. Mi invita a sedere accanto a lei. Dal bicchiere esce un vapore lattiginoso che mi ricorda da vicino le finte pozioni di Zio Tibia, effetti speciali da film di serie B. Le chiedo cos'è quell'intruglio, mi risponde che è Kleren. Ne ordina uno anche per me, lo bevo. Il sapore è buono, dolce e non troppo alcolico, ma la testa inizia a girare. Non tanto, solo un po'. Allunga la mano e la appoggia sul mio ginocchio. I jeans sono sporchi di sangue, forse è il mio. Forse non mi sono accorto che nell'incidente in auto in realtà...
La ragazza ha occhi verdi bellissimi, mi chiede se mi va di divertirmi. Appoggio la mia mano sulla sua e la ringrazio per l'offerta, ma ora devo andare. Dove vai, mi chiede, sta con me. Ma mi sono già alzato... pago l'intruglio con alcune monete enormi, sembrano dobloni, ed esco.
Salgo nell'auto, che ora sembra non aver mai avuto incidenti, lucida come appena uscita dalla concessionaria. Vi si riflettono sia la luna che le insegne del locale. Un enorme granchio, con un corpo del diametro di almeno trenta centimetri e zampe e chele lunghissime è aggrappato alla maniglia e si muove lento, con piccoli scatti tipici di quelle creature che ho sempre trovato vagamente aliene. E' rosso scuro sopra, biancastro sotto. L'idea di toccarlo con le mani per spostarlo da li mi da il voltastomaco, e sento il sapore di quel liquore voodoo risalire dalle viscere. Provo coi piedi ma non riesco, poi con un ramo strappato alla mangrovia più vicina. Ci si aggrappa, lo lancio a qualche metro di distanza. Che schifo. Finalmente salgo in auto.
Squilla il telefono, mi chiedo chi possa essere a quest'ora della notte. Quando lo prendo in mano, la chiamata è già stata accettata. E' una videochiamata, vedo il fondo di una stanza. L'inquadratura è dal basso. C'è una pianta sulla sinistra, e una abat-jour sul fondo diffonde una calda luce ambrata. La ragazza entra nell'obbiettivo, sembra stia sorridendo ma non ne sono sicuro... si sta spogliando, forse va a farsi un bagno o una doccia. Intravedo il seno, si accarezza piano. Poi lo stringe, con più forza, facendo scivolare le dita sui capezzoli. Non so se chiudere o meno la chiamata. La conosco? Credo di si. Anzi, decisamente si... Se non sta facendo apposta non è leale, dovrei forse avvertirla, chiudere subito la chiamata e... ma è bellissima.
Con la coda dell'occhio noto un movimento sotto il portico del locale. Appoggiato allo stipite della porta c'è l'enorme barista, le braccia muscolose incrociate sul petto. La parte inferiore del suo corpo è ancora umana, mentre quella superiore ora è.. un pesce. Mi osserva, o così mi pare, dai due enormi pozzi neri, inespressivi ma allo stesso tempo placidi, che sono i suoi occhi.
Esce anche la bella mulatta, sta fumando una sigaretta. Si appoggia all'altro stipite, un rapido cenno di intesa con l'uomo pesce, e poi si gira verso di me. Con la mano libera solleva un altro bicchiere di quell'intruglio, come a brindare alla mia salute, e mi fa l'occhiolino.  Il fumo del kleren le scende lungo il braccio, lo seguo con lo sguardo, si dissolve poco prima di toccare le logore assi del pavimento.
Sento una risata divertita, dal suono cristallino. Viene dal telefono. Riesco a vedere per una frazione di secondo la ragazza, ancora nuda, in ginocchio davanti alla telecamera. La sua mano si avvicina all'obbiettivo, clic, nero, è ora di svegliarsi.


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