lunedì 24 marzo 2008

[Racconto] Dresda, 1945

dresden7iqOdore di calcinacci, e un lancinante dolore alla spalla.
Sento ancora nelle orecchie un fischio acuto, e un ronzio assordante di fondo.
Semi coricato, con la schiena appoggiata alla vecchia scrivania in mogano, non riesco a muovermi
Un'asta di ferro lunga forse una trentina di centimetri mi esce da sotto lo sterno, leggermente piegata verso sinistra; alla base dell'asta la camicia è inzuppata di sangue, ma non sento dolore provenire da quella zona. Strano, sento solo un lieve formicolio alle gambe.
Faccio fatica a girare il collo, ma con la coda dell'occhio vedo un osso bianco e rosa, penso la clavicola, spuntare da sotto la camicia strappata.
Ci sono fogli sparsi ovunque. I macchinari per la stampa, quelli che riesco a vedere, sono ormai un inutile ammasso di lamiere contorte.
Il muro davanti a me è squarciato, come anche parte del tetto.
Da dove sono, attraverso le nuvole di polvere che lentamente si stanno adagiando sulle pietre, vedo la strada. Cumuli di macerie, un'auto in fiamme, gli antichi palazzi distrutti, persone che corrono, urlando... vedo anche alcuni soldati. In piedi, stanno cercando di trascinare alcuni compagni feriti lontano dalla strada. Guardo meglio... noto che ci sono molti soldati a terra. Un plotone di ronda per le vie cittadine. Gli aerei hanno colto di sorpresa anche loro.
Un soldato deve avermi visto attraverso lo squarcio nel muro. Si tuffa dentro, e corre a grandi passi verso di me, urlando qualcosa, ma non riesco a sentire.
Si svolge tutto lentamente, come in un sogno. Percepisco tutti i dettagli con una chiarezza incredibile, vedo il tessuto della divisa del soldato piegarsi, i riflessi della luce sugli stivali, il metallo lucido della pistola nella fondina.
Mi guarda negli occhi. Il suo volto è una maschera di sangue, forse nemmeno il suo. Mi prende per il bavero e mi scuote.
Il dolore alla spalla è insopportabile ma non riesco nemmeno ad urlare. I suoi occhi sono folli, imploranti. Ha bisogno di aiuto. Poi il suo sguardo finisce sull'asta di ferro che mi ha trafitto. Molla la presa e si rialza. Non posso essergli di alcun aiuto.
Si guarda attorno, per vedere se oltre a me c'è qualcun altro, e poi si allontana nella direzione dalla quale era venuto, gettandosi di nuovo nella strada massacrata dal bombardamento.

Il cielo la fuori è azzurro. L'aria è fredda e, nonostante l'odore dei calcinacci, se ne sente quasi il profumo. Un profumo che in questi anni ho imparato ad amare.
Al di la della cattedrale, devastata anch'essa dalle bombe, vedo nere colonne di fumo innalzarsi da piazza Altmarkt.

Ricordo ancora quando un nebbioso venerdì sera, nel 43, tornando alla centrale di polizia dalla ronda del secondo turno, mi trovai di fronte oltre al capitano due tizi in impermeabile mai visti prima.
Il capitano me li presentò: erano due funzionari dell'MI4, il servizio segreto britannico.
Chiesi quale fosse il motivo della loro presenza, cosa ci facevano due pezzi grossi in una centrale secondaria come quella del distretto di Dagenham. Stavo iniziando ad agitarmi.
Mio padre era britannico, ma mia madre aveva origini tedesche. Il loro sguardo era cupo, severo. Credevano forse che fossi un traditore? Gocce di sudore mi imperlavano la fronte.
Mi chiesero come fosse il mio tedesco, e se mi ricordassi ancora come funzionassero i macchinari per la stampa. Sapevano che prima di arruolarmi nel corpo di polizia di Londra avevo lavorato per qualche anno nella stamperia di mio padre.
Uno dei due iniziò ad interrogarmi in tedesco, facendomi domande sulla mia vita, sui miei affetti, sul tempo, sulla politica, sulla guerra.
Iniziavo a capire.
Stavano reclutando agenti da infiltrare oltre le linee nemiche, e il mio profilo, assieme a quello di molti altri sudditi britannici, risultava essere potenzialmente utile.
L'incontro durò un paio d'ore, alla fine del quale ero ufficialmente arruolato come agente dell'MI4.
Dopo un corso di addestramento della durata di 2 settimane sarei stato trasferito in Francia, e da li con un piccolo velivolo, di notte, sarei stato paracadutato in Germania con una nuova identità, documenti falsi, e una valigia contenente una trasmittente, un kit medico e una pistola.

Ricordo ancora il freddo tagliente di quella notte senza luna; affacciato dalla carlinga del piccolo aereo che volava a bassa quota, guardavo le cime degli alberi sfrecciare sotto di noi. Mi paracadutai a una decina di chilometri da Francoforte. Da li avrei preso il treno che mi avrebbe portato a Dresda, una splendida, antica cittadina che sorge sulle rive dell'Elba.
Non era sede di importanti installazioni militari,ma era comunque di discreta importanza strategica per il centro culturale che ospitava e per la vicinanza con il territorio polacco e cecoslovacco.

Arrivai nella città definita "la Firenze dell'Elba" due giorni dopo, e lo stesso pomeriggio fui assunto in una stamperia come addetto alle macchine e responsabile della qualità.
Il titolare era un buon tedesco sui sessanta, Alrich Weber. Grossi baffi grigi e un aspetto pacioso che ispirava simpatia al primo sguardo. Era il mio contatto. Non proprio una spia, ma una persona fidata. Fu lui che mi aiutò a trovare un alloggio dignitoso e che mi diede dritte su come muovermi in quel "gioiello di città", come la chiamava lui.
Sapevo bene cosa accadeva in Germania: i rastrellamenti, le stragi, le persecuzioni... ma a Dresda sembrava di respirare un'aria diversa.
Anche qui i soldati marciavano al passo dell'oca per le vie cittadine, ma capitava anche di vederli spesso nei caffè del centro scambiarsi battute,sorrisi e pacche sulle spalle. Sembravano, in quei momenti, attori in costume durante una pausa dalle riprese.

Un osservatore esterno, se non fosse stato per i razionamenti di alcuni generi alimentari e per la presenza di pattuglie di soldati per le vie del centro, difficilmente avrebbe immaginato che solo a pochi chilometri dalla bella cittadina infuriasse una delle più vaste e cruente guerre che la storia abbia conosciuto.

Il mio tedesco era buono, e la mia indole amichevole mi aiutò a stringere in breve tempo amicizia con Eva, Peter e gli altri dipendenti della piccola stamperia, con la padrona di casa e con i negozianti della zona.
Vivevo una doppia vita: di giorno stampavo manifesti di propaganda nazista e opuscoli informativi, di sera nella mia piccola stanza trasmettevo in codice tutte le informazioni che riuscivo a raccogliere al quartier generale dell'MI4.
Ma con tutta onestà, nonostante la relativa vicinanza col fronte russo, la vita a Dresda era così tranquilla che raramente le notizie che passavo ai servizi segreti potevano essere considerate di una qualche importanza dal punto di vista strategico.
A Dresda si poteva incredibilmente ancora respirare a pieni polmoni la bellezza della vita.

Fino a questa mattina.

La stamperia era chiusa, ed era giorno di mercato. Nelle vie del centro c'era il solito, piacevole viavai di persone. La messa domenicale nella cattedrale sarebbe iniziata da li a poco.
Approfittando della bella, seppur fredda giornata, decisi di fare un giro in bicicletta per le vie del paese, e di fermarmi poi a recuperare gli occhiali che avevo sbadatamente dimenticato sulla vecchia scrivania in mogano del sig.Weber.

Ero da poco entrato nella stamperia quando sentii l'ululato dell'allarme antiaereo invadere le vie della città. Fu questione di pochi secondi, e le prime bombe iniziarono a cadere. Istintivamente, e stupidamente, corsi a chiudere la porta. Sentii un tremendo boato e poi il nulla.

Devo essere rimasto privo di sensi per qualche minuto, non molto.

Guardo la ferita all'addome, ormai il sangue ha inzuppato tutta la camicia. Mi accorgo che la respirazione si è fatta più affannosa. In compenso la spalla ha quasi smesso di far male. Le macchioline nere che mi offuscano la vista non sono però un buon presagio credo.
Fuori dallo squarcio vedo solo desolazione e cadaveri. Chi è rimasto in vita è andato sicuramente a cercare rifugio nei pochi tunnel sotterranei costruiti all'inizio del 43.
Alla fine l'orrore è giunto anche qui.

Perché non sono stato avvertito dell'attacco? In qualità di agente io... ma no, che importanza ha?!
Mi chiedo solo se Eva, il sig.Weber e tutti gli altri siano riusciti a trovare rifugio o meno.
Mi chiedo perché ieri sera, dopo la cena a casa di Peter e sua moglie, ho esitato a dire ad Eva che mi stavo lentamente ma inesorabilmente innamorando di lei.
Dio, fa che si sia messa in salvo.
Penso ai miei genitori, e ai miei fratelli. Vorrei tanto stringerli.
Mi chiedo quanti bambini e quanti innocenti siano morti nell'attacco, e quanti ancora ne moriranno.
Perché questa è stata solo la prima ondata di bombardamenti, ne sono certo... ce ne saranno altri, e altri ancora.
Mi sembra già di sentire in lontananza il cupo brontolio di una squadriglia di bombardieri, in avvicinamento, o forse è solo un'allucinazione.
Adesso ho solo voglia di chiudere un po' gli occhi, ho bisogno di riposare.
Lasciatemi però respirare ancora un po' quest'aria, così dolce... so che mi mancherà.

Dissolvenza in nero.

Fine


Nota:
Nella stesura ho volutamente modificato alcuni dettagli storici. Il bombardamento di Dresda è avvenuto in realtà il 13 febbraio 1945, martedì grasso, alle ore 22:08. Le vittime di questo massacro insensato furono stimate tra le 35.000 e (dato da verificare, in quanto forse frutto della propaganda nazista) le 150.000.
Dresda era una città praticamente indifesa, e dalla scarsa importanza strategica.
L'obiettivo che gli alleati si erano proposti con ogni probabilità non era tanto quello di indebolire il potenziale bellico di una Germania già in ginocchio, quanto piuttosto quello di annientare il popolo tedesco sul piano morale e psicologico, nonché mostrare ai russi di quale enorme potenziale di fuoco USA e Gran Bretagna disponessero. Una dimostrazione di forza che alcuni storici individuano come una prima avvisaglia della Guerra Fredda.

2 commenti:

  1. ma che bello questo racconto...

    ...grazie per avermi portato a Dresda...non c'ero mai stata!

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  2. E' sempre piacevole portarti "in viaggio" :-)

    Era un po' che non scrivevo racconti, e ho approfittato di questi due giorni di relativa calma per buttar giù quest'idea che mi ronzava in testa da tempo.

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