domenica 11 novembre 2007

[Racconto] - Il Cairo



Ho ricordi confusi di quella sera. Quanti giorni sono passati? Quattro, forse cinque, ma non ne sono sicuro.. ho perso i sensi parecchie volte, chi lo sa.

Erano circa le 8 di sera. Mi ricordo che lo smoking su misura che indossavo era perfetto, così come le scarpe nere e lucide. Allo specchio vedevo un affascinante uomo d'affari, con i baffi sottili ben curati e la brillantina sui capelli. Sorrisi, pensando che pochi giorni prima mi trovavo su una bagnarola arrugginita sul Mediterraneo, facendomi passare dal resto dell'equipaggio per uno sporco, irsuto e scontroso pescatore greco. Giungemmo ad Alessandria il 17 di agosto.
Riuscii ad evitare la dogana, e recuperai la vecchia Jeep sgangherata (ma non troppo) che sapevo avrei trovato nel garage di un vecchio negozio controllato dai nostri.


Lasciai Alessandria alle mie spalle, e mi misi immediatamente in viaggio verso Il Cairo. A Damanthur mi resi conto che dovevo abbandonare la strada principale, quella che passava per Tanta. C'erano troppi posti di blocco, troppi furgoni carichi di soldati, non potevo rischiare. Raggiunsi la mia meta percorrendo strade secondarie. L'appuntamento era comunque per la mattina del giorno dopo, avevo tutto il tempo.

Sapevo che l'avrei incontrata in un caffè non molto distante dal centro della città, ma non potevo presentarmi in quelle condizioni. Affittai una camera in uno squallido hotel, mi sistemai, nascosi la pistola nella tasca interna della giacca di lino e uscii.
Ancora una volta in Africa, ancora una volta in Egitto. Il caldo sfiancante, il deserto, i profumi, i colori, le città affollate e rumorose, tagliate da stradine fangose che correvano come impazzite tra le piccole case dai muri bianchi e i tetti piatti, i bazar con la mercanzia sposta in strada: vasi, grandi ceste, carne essicata, vestiti... vecchi cenciosi che chiedevano elemosina ad ogni angolo, e ragazzini svelti perennemente in corsa, capaci di alleggerirti del portafoglio in una frazione di secondo.
Ma anche lussuosi alberghi, ricchissimi antiquari con anelli doro e il sorriso da iena, locali alla moda con grosse automobili parcheggiate davanti all'ingresso: Mercedes, Bugatti, Alfa romeo, Duesenberg... gendarmi tedeschi e imbrillantinati uomini d'affari spesso accompagnati da donne bellissime ed eleganti nei loro abiti chiari e alla moda.


Rimasi affascinato da questo mondo, dai suoi stridenti e al contempo seducenti contrasti, fin dalla prima volta che vi misi piede, da ragazzino, in vacanza con i miei genitori. Un luogo misterioso, che nella mia mente di bambino si popolava di spie, di assassini e di maghi, di splendide danzatrici.


E ora la spia, l'assassino ero io. A fin di bene, s'indende, noi siamo i buoni.


Era la solita storia. Dovevo recuperare certi documenti di "assoluta rilevanza strategica", prima che i crucchi li inviassero a Berlino, e per fare ciò avevo bisogno di un contatto, di una nuova identità, di una pistola e di tanta fortuna.
Il mio contatto si chiamava Elisabeth. Ovviamente era il nome della sua copertura. La vidi per la prima volta sui dossier dell' MI5, nel quartier generale di Londra. Mentre il colonnello snocciolava informazioni su colei che sarebbe divenuta il mio contatto al Cairo, io cercavo disperatamente di non perdermi in quegli occhi che mi fissavano sorridendo dalla foto, e di concentrarmi sui ragguagli forniti dal mio superiore.


Elisabeth era la figlia di un agente MI5 straniero, non mi fu rivelato di che nazionalità, caduto durante un'operazione dalle parti di Reims. La madre era morta anni prima, vittima di un rastrellamento notturno che si era trasformato, come spesso accadeva, in una esecuzione sommaria.


Per questo motivo i servizi segreti, animati anche da una profonda riconoscenza verso suo padre e il prezioso lavoro svolto al servizio dell'MI5, decisero di offrire ospitalità alla ragazza in uno dei tanti centri di reclutamento dislocati sul territorio inglese. La ragazza accettò, e non fu una sorpresa quando, a distanza di pochi mesi, presentò domanda per essere ella stessa arruolata nei servizi.


Uscii dall'hotel animato da sentimenti che si accavallavano gli uni con gli altri senza soluzione di continuità. C'erano la tensione e la paura derivate dal fatto di trovarmi ancora una volta in un territorio ostile, col rischio reale di finire la mia vita in un vicolo con un coltello conficcato nel fegato o una pallottola in testa


Ma allo stesso tempo provavo un piacevole rimescolio all'idea di incontrare il mio contatto... non immaginavo che una semplice foto potesse scuotermi tanto. Tuttavia quegli occhi.. e quel sorriso...

Arrivai al caffè, lei era già seduta ad uno dei tavolini di fronte all'ingresso. Stava leggendo un libro. Mi accorsi che mi scrutava da sotto gli occhiali da sole. Quando fui a pochi metri da lei si alzò e mi corse incontro sorridendo e pronunciando il mio nome (avevo deciso per Rütger, mi sembrava suonasse straordinariamente tedesco, molto più di un Otto o Frederik ) ad alta voce. Mi saltò letteralmente al collo, facendomi quasi perdere l'equilibrio.
Non mi aspettavo una messinscena di questo tipo, ma devo ammettere che fu veramente ad effetto. Il piano prevedeva che avrei dovuto impersonare un ricco uomo d'affari tedesco, mentre lei la mia dolce moglie fuggita dalla Germania sotto assedio per incontrarmi dopo tanti mesi, finalmente, in Egitto.


Parlammo del più e del meno, di come avevamo passato gli ultimi mesi lontani l'uno dall'altra, in parte recitando il copione stabilito dagli "sceneggiatori" dell'MI5 e in parte andando a braccio. Il nostro tedesco era buono, non avremmo fatto fatica a farci passare per il signor e la signora Feuerbach. Ordinammo qualcosa da mangiare.
E così ecco davanti a me Elisabeth. Era semplicemente stupenda, il viso abbronzato e i bellissimi capelli ricci che le cadevano dolcemente sulle spalle. Sorrideva, ed era un sorriso disarmante. Mi chiesi quanto questa ragazza dovesse aver sofferto in passato, e provai un istintivo moto d'affetto verso lei.
Ma stavo sbagliando tutto, dovevo pensare al lavoro. Anche se mi sarebbe piaciuto parecchio, non ero in vacanza.


C'era già una camera d'albergo registrata a nostro nome all'hotel Sheraton, dove lei viveva già da più di una settimana. Appena entrati, aprì una valigia e da un doppio fondo estrasse i miei nuovi documenti. Rütger Feuerbach. Fantastico, era il mio 25esimo passaporto dall'inizio della guerra.
Di comune accordo continuammo a parlare in tedesco anche li dentro, non volevamo correre rischi. L'inglese lo usavamo solo in poche occasioni, parlando a bassa voce. In quei momenti, quando anche solo per poco potevamo toglierci la "maschera" e parlare liberamente, scoprimmo quanto fosse piacevole la reciproca compagnia. Oltre ad essere una bellissima ragazza, quello che mi colpiva di lei era l'intelligenza vivace e l'ironia... tre qualità che raramente mi era capitato di ritrovare in una persona.


E mi piaceva scherzare con lei, farla ridere. Forse era una reazione alla tensione costante che vivevamo quando recitavamo la nostra parte, ma che importa. Vederla sorridere mi piaceva da morire, e questo mi bastava.

La stanza era grande, lussuosa, tipicamente mediorientale, con un grosso tappeto al centro della stanza, sfarzosi cuscini ovunque e un letto matrimoniale enorme e bellissimo.


Decisi che avrei dormito sul divano. Era piccolo ma mi convinsi che in qualche modo sarei riuscito ad addormentarmici. Già.



Vivemmo per alcuni giorni come il signor e la signora Feuerbach, cenando nei ristoranti più alla moda, passeggiando per le vie del centro, facendo colazione nei caffè frequentati da danarosi stranieri e nazisti sorridenti.


Elisabeth mi informò sui dettagli del piano. Il sabato successivo ci sarebbe stata una grande festa nella principesca dimora di Abdel Wahab, un losco personaggio di spicco della città. Tutte le personalità più in vista sarebbero state invitate, e noi eravamo per così dire "inclusi ne pacchetto". I documenti di cui dovevamo prendere possesso erano alcune mappe e piani relativi al territorio circostante Ain El Gazala, redatte direttamente da Rommel. Un ufficiale era incaricato di recuperarle quella sera stessa, e sarebbe partito il giorno dopo per Berlino per consegnarle al Fuhrer. Ovviamente, non potevamo permetterlo.


Discutemmo sul modo migliore per riuscire a trafugare i documenti senza correre rischi eccessivi, ma c'erano troppe variabili in gioco. Avremo dovtuto improvvisare.


Nell'albergo conoscemmo un'altra coppia di tedeschi, Heinrch e Anna. Giovani e di bell'aspetto, sembravano letteralmente presi da uno di quegli ignobili manifesti di propaganda ariana... entrambi alti, biondi e con penetranti occhi azzurri. Mi chiesi se l'aspetto di Elisabeth poteva averli incuriositi: era alta, ma era mora e i suoi tratti sicuramente mediterranei. Confidai nel suo ottimo tedesco per fugare dai nuovi "amici" qualsiasi dubbio. E poi diciamocelo, parecchi tedeschi hanno caratteri somatici non propriamente "ariani", anche tra le fila dei gerarchi nazisti. Il che rende ancor più evidente l'idiozia di tutta la faccenda.


La giovane coppia era simpatica. Scoprimmo presto che anche loro erano stati invitati alla festa. Poteva essere un problema, avere altri quattro occhi puntati su di noi quella serata non ci avrebbe sicuramente agevolato.


Passavano i giorni, e noi continuavamo con la nostra apprezzabile "recita"... vivere sotto mentite spoglie è estenuante, ma quando passeggiando per le vie del Cairo sentivo la mano di Elisabeth nella mia, la sua testa appoggiata alla mia spalla, il suo profumo... mi trovavo a sperare che il sabato arrivasse il più tardi possibile.


Ma, ovviamente, il sabato arrivò.


E nella stanza illuminata dalla luce gialla stavo rimirando il sig. Rütger Feuerbach, un perfetto rappresentante dell'alta borghesia industriale tedesca. Lei era sulla grande terrazza della nostra camera. Guardava dall'alto quella città che da li a poco ci avrebbe inghiottiti in un turbinio di luci, automobili lussuose, allegri schiamazzi in tedesco, in arabo e in quel francese coloniale così lontano da quello parlato a Parigi e Lione...


La guardavo. Sembrava vagamente malinconica, o forse era solo intenta a gustarsi quella strana città che riusciva in qualche modo a condensare il mistero dell'Africa e la frenesia dell'Europa dei bei tempi in un unico ribollente calderone.


Avrei tanto voluto avvicinarmi a lei, scostarle piano con la mano i lunghi capelli e darle un semplice bacio sul collo, su quella pelle profumata ed abbronzata che raccoglieva gli sguardi ammirati di così tanti uomini. Era splendida, e mi accorsi che il mio cuore aveva iniziato a battere più forte.


Così non andava bene. Mi concentrai allora sul piano, su come sarei riuscito a raggiungere quella cassaforte, ad aprirla, trafugare i documenti, sostituirli con i falsi, e tornare con nonchalance alla festa per godermi ancora un po' di quiete prima della mia fuga. Avrei utilizzato la stessa jeep usata per giungere qui e mi sarei diretto di nuovo ad Alessandria e, ripreso la mia ventiquattresima identità di pescatore greco, mi sarei imbarcato per Atene.


Elisabeth avrebbe dovuto invece raggiungere Bur Sa'id e da li imbarcarsi per la Spagna. Mi spaventava l'dea di lei sola, ma in fondo era un'agente britannico, se la sarebbe cavata.


Era giunta l'ora di partire, scendemmo nella hall dell'albergo per incontrarci con i nostri nuovi amici. Una grossa Mercedes con autista ci aspettava già fuori dall'hotel. In pochi minuti giungemmo alla villa, o sarebbe stato più corretto chiamarla "reggia", di Abdel Wahab.


L'auto parcheggiò nel vialetto d'ingresso, proprio davanti alla scalinata. Dalle finestre pendevano grandi drappi col vessillo nazista, in onore degli ospiti più importanti. Entrammo.


Il salone all'ingresso era illuminato a giorno. Due pinguini col fez in testa ci diedero il benvenuto e chiesero cortesemente i nostri nomi. Una veloce controllata all'elenco degli ospiti e poi fummo liberi di mescolarci con il resto degli invitati.


Dal sontuoso salone ci spostammo nel cortile interno, vero fulcro della serata. Si trattava di una sorta di amplissimo chiostro, con un colonnato che ne percorreva tutto il perimetro e scalinate che portavano alle terrazze e piani superiori, anch'essi illuminati a festa. Al centro si trovavano 3 palme di notevoli dimensioni, attorno alle quali era stato realizzato una sorta di bar circolare dove abili barman servivano cocktail a ritmi serrati. Piante ornamentali con fiori profumatissimi scendevano come cascate dalle terrazze e contribuivano ad aumentare, come se fosse necessario, la sensazione di lusso e classe.


Nazisti con la divisa a braccetto con bellezze locali, uomini d'affari di diverse nazionalità (sono certo di aver visto anche qualche americano... niente di strano in fondo) e importanti personalità del posto.


Notai anche alcune ragazze sole, intente ad accaparrarsi il primo uomo senza compagna che varcasse la soglia. Probabilmente si trattava di una accortezza del nostro ospite, desiderava che tutti gli invitati potessero godere della serata nel migliore dei modi.


In fondo, in un angolo, una orchestra di 8 elementi, eleganti nelle loro giacche bianche, i pantaloni neri e il fez sul capo, suonava un ottimo swing.


Il sig. Wahab girava tra i tavoli elargendo ampi sorrisi e strette di mano a chiunque. Sembrava sinceramente felice.


Io, Elisabeth e i nostri amici prendemmo posto in un tavolo non troppo in vista, e iniziammo a gustare alcune tartine accompagnate da vino italiano.
Mi guardai attorno, cercando di identificare la scala che avrebbe potuto portarmi alla stanza della cassaforte. La trovai. Una guardia la piantonava, dannazione. Stavo pensando ad un diversivo quando Wahab si piazzò sul palco, con la moglie al suo fianco, e al microfono diede il benvenuto a tutti i suoi onorevolissimi ospiti. Dopo i convenevoli, invitò tutti a divertirsi e a prendere posto sulla pista da ballo. "Sarà una serata fantastica amici miei, ve lo assicuro!".


Seguendo l'esempio degli altri, anche io ed Elisabeth ci alzammo e raggiungemmo la pista. L'orchestra attaccò con una Moonlight Serenade da brivido, e iniziammo a ballare cullati da quelle dolci note. Ero imbarazzato, ma stringerla tra le mie braccia era bellissimo. Avvicinò le sue labbra alle mie, e mi baciò, dolcemente. Non c'era alcun bisogno di spingere la recitazione a questo punto, e mi piace credere che semplicemente desiderasse farlo. Assaporai le sue labbra. Una frazione di secondo che percepii come una goccia di eternità.


Ero ancora stordito dal bacio quando vidi Heinrich avvicinarsi a noi e chiedere l'onore di ballare con Elisabeth. A malincuore sorrisi e, vedendo il cenno di assenso di lei, acconsentii.

Tornai al tavolo assieme ad Anna, che mi sorrise e iniziò a parlarmi di quanto fosse stata dura per lei riuscire a lasciare l'amata Germania per seguire il suo Heinrich qui in Africa.


Mentre ascoltavo il suo racconto guardai Elisabeth stretta al nuovo compagno di ballo e provai una dolorosa fitta di gelosia.
Vidi Heinrich avvicinare le labbra all'orecchio di lei e sussurrargli qualcosa. Non si vergognava quell'imbecille? Io e sua moglie eravamo a pochi metri e lui si lanciava in odiose avances alla mia compagna!


Mi accorsi che stavo perdendo di vista l'obiettivo della missione, accidenti. Stavo per mettere a rischio una operazione per colpa uno stupido attacco di gelosia. Ma non riuscivo a scrollare gli occhi da loro due.


Ad un tratto vidi Heinrich infilare la mano nella tasca della sua giacca ed estrarre una piccola pistola e la puntò al fianco di Elisabeth. Lei mi guardò, con uno sguardo che non riuscii a decifrare.


L'uomo, senza smettere di ballare, si portò con Elisabeth in prossimità della scala piantonata dalla guardia. Disse qualcosa alla guardia, che si spostò di lato e li lasciò passare.


Anna continuava a blaterare ma non l'ascoltavo ormai da minuti. Mi scusai, presi 3 bicchieri e una bottiglia di Champagne e mi diressi a grandi passi verso la guardia. La guardia vedendomi avvicinare si irrigidì. L'orchestra continuava a suonare, nessuno si era accorto di nulla.
Dissi alla guardia che dovevo raggiungere i miei due amici che erano appena saliti. Sforzandomi, mi prodigai in un sorriso malizioso e feci notare la bottiglia e i 3 bicchieri. La guardia si rilassò, e ricambiò il mio sorriso. Tra uomini di mondo ci si intende sempre, vero?


Salii le scale cercando con tutte le mie forze di non lanciarmi in una corsa per non destare sospetti. Appena girato l'angolo posai bicchieri e bottiglia in un grosso vaso pieno di terra e cercai l'impugnatura della Browning nella tasca interna dello smoking.
La terrazza, una sorta di giardino pensile, era fievolmente illuminata da alcune torce. In fondo al vialetto che correva a fianco del parapetto, una porta spalancata dava sulla stanza che avrebbe dovuto contenere la cassaforte. Dovevano essere per forza la dentro.


Entrai nella penombra e vidi Elisabeth.


Impugnava una pistola, e la puntava dritta contro di me. Non ebbi il tempo di reagire. Sentii un dolore lancinante alla testa e mi accasciai a terra. Caddi come al rallentatore, vidi Elisabeth abbassare l'arma, vidi un'ombra dietro di me, Heinrich, e il pavimento che si avvicinava sempre più.
Quando mi svegliai ero coricato, legato mani e piedi, una benda sugli occhi e una sulla bocca. Elisabeth era vicino a me, sentivo il suo profumo. Teneva una mano sul mio viso, mi accarezzava piano. I ricordi sono confusi ma sono certo che mi trovavo in viaggio, probabilmente nel furgone di qualche vecchio trabiccolo sferragliante. Sentii delle voci. Parlavano in tedesco. Elisabeth discuteva ora animatamente con uno che non sembrava Heinrich, pareva più vecchio, ma potrei sbagliarmi. Cercai di capire cosa dicevano ma non era facile. La testa mi faceva male, ed ero come sotto sedativo. Non escludo di essere stato drogato, come precauzione nel caso la botta in testa non fosse stata sufficiente.


La sentii parlare un incontro al quartier generale di Assuan, di uno "scambio". La sentii parlare di suo padre. Poi persi di nuovo i sensi.


Ripresi conoscenza non so quante ore dopo, credo parecchie. Ero seduto su una sedia di metallo, estremamente scomoda. Le caviglie legate l'una all'altra, i polsi legati dietro la schiena. Cavi metallici. La benda sugli occhi era stata sostituita con un più pratico e sicuro nastro adesivo
Era una stanza vuota, ma non doveva essere molto grande. L'eco c'era ma contenuto, e metallico. Forse ero in una sorta di container.


Non ero solo. Due persone, il giovane (il caro Heinrich) e il vecchio tedesco, presero a farmi domande. Erano del controspionaggio, ovviamente. Parlavano in un inglese tremendo. Avrei voluto dirglielo ma non mi parve il caso, ero già abbastanza nei guai.


Mi dissero che non avevo scelta, avrei dovuto collaborare. Prima o poi sarei crollato, questo è certo, era solo questione di tempo. Avevano ragione, lo sapevo. Dovevo riuscire a convincerli che avevano tra le mani una pedina senza alcuna utilità.


Forse non avrei fatto altro che anticipare l'ora della mia morte, ma mi sarei probabilmente risparmiato sofferenze inutili e soprattutto non avrei rivelato nulla di quello che sapevo ai crucchi.


In linea di massima avevo visto giusto, tranne che per il particolare delle sofferenze. Quelle arrivarono comunque, senza sconti.

Risposi quasi sempre alle loro domande fornendo informazioni approssimative, o di pubblico dominio, spacciandole per segreti di fondamentale importanza. Dovevo sembrare un vero imbecille, una mezza cartuccia che si pensava agente segreto d'alto rango, ma che non sapeva manco allacciarsi le scarpe.


Sulle prime forse avevano pensato che stessi bluffando, cosa che in effetti stavo facendo. Non erano tutti stupidi i tedeschi allora. Ad ogni modo deve essere per quel motivo che hanno lavorato così scrupolosamente con gli elettrodi, e con i miei denti, e con quel sacco da boxe che era diventato il mio stomaco.


Avevo fame, e sete, e loro da buoni carcerieri mi offrivano bocconi dei loro succulenti panini, e dei sorsi della loro acqua. In cambio di informazioni. E quando riattaccavo con le fesserie, loro riattaccavano con gli elettrodi.
Il terzo giorno, o per lo meno quello che credo fosse il terzo giorno, li sentii confabulare fuori dalla stanza. Mi parve di capire che dovevo averli finalmente convinti del fatto che fossi semplicemente un idiota, mandato dall'MI5 più per far perdere tempo ai servizi segreti tedeschi che altro. Un diversivo.


Ora dovevo solo attendere la pallottola che mi avrebbe finalmente liberato da questo incubo. Ma non arrivò. Il giovane mi disse che non meritavo neppure lo spreco di munizioni tedesche. Mi salutò con un "auf wiedersehen" talmente ad effetto che se avessi avuto le mani libere avrei sicuramente applaudito.


I due se ne andarono, sentii il rombo del fuoristrada allontanarsi sempre più, affievolirsi fino a diventare silenzio. Ero solo.


Dopo parecchi patetici tentativi riuscii a liberarmi da quella maledetta sedia. Non riuscii però a riportare le braccia, sempre legate per i polsi, dietro la schiena, in una posizione più naturale. Il che significava anche scordarsi di riuscire a levarsi quel maledetto nastro adesivo sugli occhi.


I muscoli erano doloranti e indolenziti dalle scariche elettriche ricevute, la faccia probabilmente una maschera di sangue. Esplorai la stanza: tre metri per tre, pareti in metallo arrugginito, scaffali su un lato e porta (aperta) sull'altro.


Cercai cibo. Non fu difficile, bastò seguire il ronzio delle mosche. Trovai un mozzicone di panino ancora commestibile, e lo mangiai lentamente. Cercai acqua e non ne trovai. Uscii, e l'aria calda del deserto mi investì. Non un suono a parte quello del vento e di qualche uccello lontano.


Iniziai a camminare, alla cieca, approssimativamente nella direzione dalla quale sentivo provenire il suono degli uccelli, forse gabbiani, nella speranza avvicinarmi ad un centro abitato, al grande fiume egiziano, o addirittura alla costa.


Sono però già due giorni che cammino, e non ho ancora trovato alcuna traccia di civiltà, nessun vociare anche lontano, nessun rombo di motori. E iniziano a mancarmi le forze. Mi sembra ormai che il suono dei gabbiani sia tutto intorno a me, non capisco più se sto andando avanti o se sto tornando sui miei passi. E' un incubo, e so che non resisterò a lungo.



Ho pensato tanto ad Elisabeth. Con ogni probabilità suo padre non era morto, era stato semplicemente sequestrato dai nazisti. Le serviva una moneta di scambio, e io ero la moneta. E mi chiedo come faccio ancora a sorridere quando penso a lei.

La immagino in compagnia di suo padre, sulla nave partita da


Bur Sa'id, col vento nei lunghi capelli e il sole che le bacia la pelle abbronzata. Non credo la rivedrò mai più.

13 commenti:

  1. che bel racconto Derek!!! Peccato il finale "non a lieto fine"....certo che sta elisabeth è proprio na stronza!!! :-)

    P.S. E' inuttile che mi dilugo sul tuo stile narrativo che sai già piacermi moltissimissimo!!!

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  2. Signorina, sono onorato, davvero! :-) Sono contento che questa volta non ci ho messo neppure troppo a scriverlo, si vede che la "malattia" stimola!

    p.s: quando farò un finale a lieto fine stappiamo una bottiglia di quelle buone haha!

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  3. no,'spetta...mica può finire così?!?Ma non perchè voglio necessariamente un lieto fine con tanto di bacio appassionato e fuochi d'artificio..ma perchè non voglio smettere di leggere.Ti prego continua....

    E poi imbarazzi gli altri,ma tu scrivi "da paura" (fattela spiegare da Curlyz cosa si intende con questa espressione =) )...Davvero non mi capitava da Tempo essere catapultata in un altro mondo come hai saputo fare tu con questo racconto...Complimenti Derek...mi inchino =)

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  4. @KHIRA: dobbiamo trovare il modo di sfruttarlo sto talento!!!

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  5. @Khira: hehe mi fa non piacere, deppiù che ti sia garbato il racconto!! I complimenti che vengono da te valgono triplo! :-) Adesso sono imbarazzato io!


    @Curlyz: Khira mi ha detto di chiederti cosa intendi per "Da paura"! E' perchè ci sono sempre morti?! :P

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  6. @Curlyz: come già stabilito io curerò l'immagine del nostro amichetto talentuoso e a te spetta la parte burocratica (e come dividerci gli introiti hihi)....

    @Derek: sei elegantemente bravissimissimo a scrivere.E zitto,ho ragione io...

    Comunque "da paura" sta ad indicare un'espressione di meraviglia,di sorpresa per la bravura e i brividi che si possono cogliere da qualcosa.Ecco =)

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  7. Ragazze, siete troppo buone (notare che ho messo la "u", sono un signore hehe)... diciamo che è un gruppetto di scribacchini niente male, no? :-)


    Sta cosa però che (in qualità di agenti) state già pensando a come dividervi il mio "patrimonio" inizia a preoccuparmi un po' hahaha! Dite che non me la cavo portandovi fuori a cena?!? :P

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  8. Derek portaci pure a cena,ma a vita hihihihi

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  9. Hahaha, ok! Aspettiamo solo Culryz che, esperta "avvocameriera", stilerà la lista dei ristoranti papabili :D

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  10. Cari Derek e khira...qui davvero tocca "organizzasse"!!!

    Derek...se anche khiretta è di appetito come me...forse è meglio che ci lasci una parte dei tuoi introiti...fidati, risparmieresti ;-D!!!

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  11. Allora facciamo che prima vi guardo mangiare una o due volte e poi decido hehehe!! ;-)

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  12. Scusa, Derek, non ti offendere, ma non ho mai visto un post più lungo del tuo. Scusa ancora, ciao.

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  13. @Ocapitano: hehe, mi hai scoperto, volevo battere un record... ce l'ho fatta?! :-)

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