Il mio nome lo ricordo ancora con chiarezza, ma non si tratta di un dettaglio molto interessante.
E' una delle cose che riesco a ricordare senza essermelo per forza scritto su un foglio di carta. Mi sono reso conto che ho iniziato a scrivere troppo tardi, e con poca regolarità. Molti ricordi sono ormai scomparsi, altri sono invece con ogni probabilità proiezioni deformate dei ricordi originali. Lo intuisco dai dettagli grotteschi, dalle incongruenze, dal fatto che è sempre notte, e piove costantemente. O forse non sono i ricordi ad essere deformati, ma la realtà stessa... non lo so più.
Questa camera d'albergo è uno schifo, me è il meglio che posso permettermi.
La muffa incrosta ogni parete. Dell'antica carta da parati gialla, decorata con un motivo di foglie rampicanti dorate, rimangono solo alcuni brandelli consunti. Lo specchio in stile liberty appeso sopra la piccola scrivania è opaco e macchiato, arrugginito. Sui lati si intuisce la sagoma di foto anticamente fissate alla cornice metallica.
Il pavimento è a rombi neri e bianchi, o forse è meglio dire giallastri.
Il lampadario è di quelli economici. Un filo elettrico che penzola dal soffitto con in fondo una lampadina grande come un pugno. Non ha mai funzionato. C'è una piccola abat-jour risalente credo ai primi anni 20 sopra il comodino, e poi c'è un vecchio armadio, con ogni probabilità dello stesso periodo. E' tutto terribilmente deprimente.
Ieri sera mentre facevo la doccia due scarafaggi sono usciti dallo scolo. Uno dei due era davvero enorme.
Odio gli insetti, li ho sempre odiati. La luce tremolante del neon luccicava sulla loro corazza viscida. Muovevano quelle loro piccole antenne e giravano in cerchio, esplorando il piatto di ceramica bianca della doccia.
Li ho guardati per un po', poi li ho ricacciati nel buco dal quale erano usciti, usando il getto d'acqua della doccia.
Non so perché ne parlo.
Mi sono poi coricato a letto cercando di prendere sonno, ma le fitte allo stomaco non mi davano tregua, e per quasi tre ore sono rimasto sveglio con gli occhi sbarrati fissando le incrostazioni del soffitto.
Giocando a riconoscere visi, animali e oggetti in quelle sagome indistinte come quando da piccolo, coricato nella soffice erba del giardino di casa, guardavo le nuvole rincorrersi nel cielo.
Ma non succedeva niente, le macchie rimanevano macchie, gli strappi restavano strappi.
Forse non avrei dovuto saltare ancora una volta la cena. E forse non avrei dovuto spendere gli ultimi spiccioli per quella bottiglia di gin scadente.
Alla fine mi sono addormentato.
Adesso sono le 10 di mattina, piove a dirotto da un po'. La luce che entra dall'unica finestra non murata della camera è di una triste sfumatura di grigio.
La città la fuori è un continuo ululare di sirene e le urla dei predicatori raggiungono anche il quindicesimo piano di questo vecchio palazzo, mescolate al ritmico scrosciare della pioggia.
Pensavo che forse continuare a scrivere non ha più molto senso, ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Come me, mi verrebbe da dire.
Ma non mi illudo, alla fine è solo questione di tempo. Ne è passato tanto, troppo, ma almeno sarò io a decidere quando mettere fine a tutto.
E' una città strana questa. Appena ti allontani dalle luci e dal frastuono dell'uptown è facile perdersi.
Soprattutto se sei solo, quando le cose non vanno come vorresti, quando i tuoi affetti sono lontani, e quando l'orgoglio ti impedisce di tornare indietro. perché risulta più facile lanciarsi verso il baratro piuttosto che ammettere che non è andata, o forse è per non vedere la tristezza negli occhi di chi ti ama, di chi ti ha visto partire pieno di sogni e di fiducia.
E' triste che non abbia precisa memoria di quello che mi ha portato a ridurmi in questo stato, di come è iniziato tutto, ma come dicevo i ricordi del mio recente passato sono abbastanza frammentari e confusi.
L'unica cosa che so è che i miei sogni di diventare giornalista a qualche punto della mia vita devono essersi infranti. L'ho dedotto dalle raccomadate che ho trovato in un cassetto, risposte a mie richieste d'assunzione che con tono gentile mi informavano che il loro organico era al completo e che, ad ogni modo, non avrebbero assunto personale alla prima esperienza.
In fondo ad uno dei cassetti ho poi trovato la foto di una ragazza. Era strappata in due. Non c'erano lettere o altro che la riguardassero, ma doveva essere stata qualcuno di importante per me.
Parlo di queste cose come se si trattasse di ricordi di qualcun'altro, della vita di qualcun altro, ed è folle lo so.
L'unica cosa che ora so è che tutto è perduto, ed è doloroso, straziante. Qualche notte fa, pensando a questa situazione, la associai ad una immagine di me da piccolo, avrò avuto sette, otto anni.
Ero al paese dei nonni, un agosto di mille anni fa, ed era appena passato un violento acquazzone. Mio nonno mi aveva preparato una delle sue speciali barchette di carta: sapeva che adoravo farle veleggiare nelle enormi pozzanghere che si formavano nelle vie del vecchio quartiere residenziale.
Le sue erano barchette speciali: dopo aver dato la forma al foglio di carta prendeva una candela e l'accendeva. Poi con un piccolo pennellino prendeva la cera liquida che si formava attorno allo stoppino e la spalmava sapientemente sullo scafo, rendendole quasi impermeabili, e per me era favoloso.
Finita l'operazione mi diede la barchetta, sorridendo. Ero già vestito di tutto punto, con gli stivali di gomma rossa e quel ridicolo l'impermeabile giallo. Presi la barchetta e corsi giù dagli scalini saltandoli due a due. Ricordo ancora l'odore dell'asfalto bagnato, mescolato al profumo dell'aria fresca e dei pini del giardino. Correvo come un pazzo verso il quella che sarebbe stata sicuramente la più grande e bella pozzanghera di tutto l'isolato, quella che di solito si formava vicino all'incrocio. Non vedevo l'ora di posarla sull'acqua, per poi accucciarmi e scoprire che direzione avrebbe preso, quanto tempo avrebbe resistito, fino a dove si sarebbe spinta. E il giorno dopo in classe ne avrei parlato con i miei amici.
Ma correvo troppo forte, e non mi ero accorto di un piccolo pezzo di ramo davanti a me. Ci scivolai sopra, persi l'equilibrio e nello slancio della corsa caddi in avanti sull'asfalto bagnato e ruvido, sbattendo con violenza la testa. La botta fu tremenda, tanto da offuscarmi per qualche secondo la vista. Quando riuscii di nuovo a mettere a fuoco, vidi la barchetta a circa un metro da me. Era finita in un rigagnolo, e stava scivolando verso il tombino. Ricordo che urlai "NO!!" mentre cercavo di rialzarmi, ma mi faceva male il ginocchio e i miei movimenti erano esasperati e lenti, per la furia caddi di nuovo. Ricordo chiaramente il dolore dei piccoli sassolini che si conficcarono sotto il mento, il sapore del sangue in bocca, la sensazione degli occhi gonfi di quelle lacrime che sarebbero sgorgate di li a poco.. e la visione della piccola barchetta che raggiungeva il tombino, si incastrava per una frazione di secondo nella grata metallica, per poi inabissarsi giù, nel buio, senza che io potessi farci niente.
E' assurda la chiarezza con la quale sia riuscito a ricordare questi ed altri eventi del passato, considerato che stento a ricordarmi cosa ho fatto l'altro ieri. Ma ho constatato che è un processo degenerativo, quindi è ridicolo farsi illusioni pure su questo.
L'unica cosa che mi rammenta ancora che sono un uomo sono i ricordi... non voglio diventare una specie di zombie che si trascina per le vie della città senza sapere dove sta andando né perché. Devo prendere una decisione in fretta... dovevo forse prenderla tempo fa, lei mi aveva avvertito che ritardare l'inevitabile sarebbe stato solo peggio, ma non avevo ancora capito la gravità della situazione.
Come dicevo, quel poco che so del mio passato recente l'ho scoperto grazie ai fogli che ho trovato nei cassetti della scrivania dell'appartamento dove vivevo prima. Oltre alle raccomandate e alla foto strappata, trovai infatti quello che potrei definire il mio "diario". Immagino che possa far risalire l'inizio di questa storia ad un periodo vicino a quello in cui fu scritta la prima pagina del "diario", circa due anni fa.
Era una sera solitaria come tante, e me ne stavo nel mio modesto appartamento vicino al porto cercando di leggere un libro. Di giorno lavoravo in un magazzino. Non ricordo che tipo di magazzino fosse, né dove fosse, e neppure che mansione avessi, ma non importa. Non era un gran che, mi pagavano poco e saltuariamente, ma avevo un lavoro e non ero costretto ai vergognosi furtarelli che adesso mi permettono di mangiare di quando in quando e di pagare l'affitto al padrone di questa topaia. Un figlio di puttana.
Ecco quello che successe.
Foglio #1
Non ricordo come presi la decisione, ma poco prima delle dieci me ne uscii in strada, credo avessi semplicemente voglia di vedere un po' di gente.
Era una notte fredda, indossavo un pesante giaccone di pelle, una cuffia nera calata fin quasi sugli occhi e un paio di guanti. Le luci della città si riflettevano sull'acqua nera della baia. Davanti a me vedevo il grande ponte che collegava la parte sud della città con la parte nord. Era imponente, soprattutto visto dalla zona del porto.
Con la metro mi ci volle poco più di mezzora per raggiungere l'uptown. Mi tuffai nella folla: gruppi di ragazzi che ridevano e scherzavano tra loro, giovani e meno giovani coppie passeggiavano a braccetto, uomini d'affari con la ventiquattrore in una mano e il trolley nell'altra. La strada era un fiume di automobili lucide che riflettevano le luci dei locali alla moda, delle vetrine dei negozi e dei ristoranti. Il cielo sopra di noi minacciava pioggia, o forse addirittura neve considerata le temperatura glaciale, ma nessuno sembrava curarsene.
Vidi un pub gremito di gente, gestito da irlandesi (l'enorme arpa celtica che campeggiava sulla vetrata lasciava pochi dubbi a riguardo), e decisi di entrare. Mi sono sempre stati simpatici.
Quasi tutti gli avventori avevano gli occhi puntati verso un grosso schermo, davano una partita di calcio. Campionato, ovviamente, irlandese. Una delle due squadre era mi pare il Shelbourne, l'altra forse era quella dei Bohemians.
Dopo la terza birra mi scoprii accanito sostenitore della squadra con la maglia rossa e bianca, penso il Shelbourne. Vinse l'altra squadra, ma che importava? Ricordo che un ragazzone biondo che indossava una maglia rossa e bianca mi si avvicinò, con quella sua grossa faccia quadrata e affabile, mi diede una poderosa pacca sulla spalla mentre diceva qualcosa che, naturalmente, non ricordo. Ma ricordo che disse qualcosa al barista e pochi secondi dopo mi trovai in mano un bicchiere colmo di whiskey a brindare col simpatico sconosciuto, il primo di una lunga serie.
Devo essermi appisolato per qualche minuto sul bancone, e quando mi sono svegliato il locale stava già iniziando a svuotarsi. Nessuna traccia del ragazzo, solo alcune banconote stropicciate lasciate sul bancone.
Mi faceva male la testa, e avrei voluto ben vedere!
Chiesi al barista quanto gli dovevo ma fece un cenno che lasciava intendere che era già stato tutto sistemato. Mi rivolse un sorriso un po' triste, poi scomparve nel retro del bar, dove doveva trovarsi la cucina.
Notai vicino alle banconote alcuni biglietti, neri e con una scritta grigio scuro dai caratteri eleganti. Li aveva lasciati il barista? O forse era stato il ragazzo di prima?
Ne presi uno per esaminarlo, La carta era opaca, tranne in corrispondenza delle lettere, lucide.
Erano ingressi gratuiti (una scritta recitava addirittura "all-inclusive ticket") per un locale che si chiamava "Black Ice". Sul retro del biglietto un indirizzo, un numero di telefono e una piantina stilizzata. Poco più sotto una scritta in una scura tonalità di rosso recitava "L'ingresso è vietato ai minori di 18 anni".
Un night club.
Me ne stetti per qualche minuto col mento sul bancone, fissando il biglietto attraverso il vetro dell'ultimo bicchiere di whiskey irlandese che mi ero scolato. Da quando mi ero trasferito in quella città non mi ero mai avventurato in posti come quelli. Avevo scoperto che non facevano per me quando una sera di 15 anni prima, per il mio diciottesimo compleanno, alcuni amici mi avevano convinsero a lasciarmi andare ed entrare con loro in un piccolo night club di periferia.
Sembravano passati secoli da allora.
Mentirei se dicessi che non so cosa mi spinse a prendere uno di quei biglietti e ficcarmelo nella tasca del giaccone di pelle. Da una parte c'era pura e semplice curiosità fanciullesca, alimentata da tutto l'alcool ingerito quella sera. Dall'altra parte c'era quel costante senso di solitudine che mi stringeva il petto ogni notte di quell'infinito inverno.
Ma pensandoci ora c'era sicuramente anche altro, qualcosa che aveva a che vedere con l'autodistruzione, la negazione di se stessi. Un sentire più "decadente" che "punk" forse, ma la sostanza non era molto diversa. Niente nella mia vita andava come avevo sperato, per quanti sforzi facessi, e qualcosa dentro me doveva aver deciso che era inutile continuare a fingere. Tutto ciò che ero, tutto ciò in cui credevo, mi aveva portato a quel punto morto. Che senso aveva continuare ad essere me stesso?
Ma queste, come dicevo, sono considerazioni che faccio solo ora mentre scrivo su questo foglio di carta... seduto a quel bancone dovevo aver pensato semplicemente "perché no?".
Uscii dal locale, rigirandomi tra le dita quel biglietto. L'aria si era fatta più tesa, e fredda. Saranno state circa le 2 di notte e la città stava iniziando a svuotarsi. La mia testa era pesante, ma mi reggevo ancora più che dignitosamente in piedi. Era ora di rincasare e di lasciar perdere ogni stramba fantasia. L'indomani avrei dovuto svegliarmi alle 6 come tutti i giorni e sapevo già che sarebbe stata dura.
Mi avviai verso la fermata della metro, lasciando cadere il biglietto in un cestino a bordo strada.
Stavo già scendendo gli scalini della West End Station quando decisi che in fondo un giretto, per curiosità, avrei potuto anche farlo. Questione giusto di mezzora, per farmi un ultimo goccio in un luogo probabilmente più esotico di un pub irlandese qualsiasi, e poi me ne sarei tornato di corsa a casa.
Tornai sui miei passi, e trovai il biglietto sul marciapiedi a poco distante dal cestino. Dovevo essere decisamente brillo se non ero riuscito a centrare un cestino dalla distanza di 10 centimetri, ma tutto sommato meglio così, mi ero risparmiato una penosa ricerca tra i rifiuti.
Diedi di nuovo un'occhiata all'indirizzo e alla cartina: il locale si trovava a cinque isolati da li, non più di venti minuti di strada.
L'aria fredda della notte mi strizzava i sensi, aiutandomi a ritrovare un po' di lucidità. Non servì a molto, ma sempre meglio di niente. La strada e i marciapiedi erano decisamente meno affollati di prima. Le persone per bene erano già a casa, pensai mentre trattenevo una risatina stupida, alcolica.
Man mano che avanzavo, lasciandomi alle spalle la familiare e luminosa uptown per raggiungere il Black Ice vedevo le architetture mutare, lasciando il posto a vecchie costruzioni di inizio secolo. Le strade si facevano più strette, e un po' più buie, illuminate di quando in quando dal bagliore blu dei lampeggianti di qualche pattuglia della polizia che scivolava sull'asfalto nero e bagnato. Nessun inseguimento, solo lente ronde di controllo.
Giunto in quelli che pensavo fossero i pressi del locale dovetti tirare di nuovo fuori il biglietto e osservare bene la cartina per riuscire a trovarlo. Mi infilai in un dedalo di viuzze strette, illuminate poco e male da lampade fissate sugli altissimi muri in mattoni. Sembrava di trovarsi in un labirinto, avevo continuamente la sensazione di aver sbagliato strada, o di esser già passato più volte per lo stesso punto, ma alla fine ce la feci.
Spuntai in una larga via deserta: nessun passante, nessuna automobile, e i rumori della città arrivavano ovattati, lontani. I lampioni sul bordo della strada illuminavano la scena con una brillante luce bianca ma sulla linea elettrica doveva esserci qualche problema perché le estremità della strada erano al buio, letteralmente ingoiate dalla notte. Era un'atmosfera strana, essere da solo in quel posto non mi piaceva, eppure pareva non esserci nessun pericolo: non c'erano tossici o ubriaconi accasciati vicino ai lampioni, nessuna gang di delinquenti a caccia di prede facili, niente di niente.
Ma penso che fosse questa totale assenza di vita ad inquietarmi. E quel buio. Nel silenzio, mi pareva quasi di avvertire un ronzio, ma non capivo se proveniva dai lampioni o se era nella mia testa.
L'insegna del Black Ice campeggiava nera ed enorme sul muro dell'edificio che si stagliava di fronte a me. Un palazzo imponente, austero, vecchio, un fantastico esempio di architettura governativa di inizio secolo. Avrebbe potuto essere un vecchio ufficio del catasto, o una stazione di polizia. E adesso era.. beh era quel che era. Il cielo attorno al palazzo, illuminato nei piani più alti da alcuni faretti, era nero. Non blu, nero, e senza stelle, senza tracce delle altre luci della città, tanto da farmi dubitare per un attimo che ci fosse realmente una città dietro quel palazzo.
Attraversai la strada, e man mano che mi avvicinavo all'ingresso di quel vecchio palazzo il ronzio si faceva sempre più forte, quasi assordante.
Aveva qualcosa di elettrico, ma poteva ricordare anche il ronzio di certi sciami di insetti.
Avevo inoltre la sgradevole sensazione di essere seguito, di sentire dei passi, ma quando mi girai non c'era naturalmente nessuno, solo l'ingresso del vicolo dal quale ero sbucato, nero anch'esso come le estremità di quella via deserta e come il cielo di quella notte. Con ogni probabilità i passi che avevo sentito erano i miei.
In quel frangente pensai che avrei fatto meglio a lasciar perdere quel maledetto biglietto, che in quel momento avrei potuto essere nel mio appartamento, seduto sulla poltrona a guardare un film in attesa che la sbornia passasse. Perché iniziavo ad averne abbastanza di quel cielo nero, del freddo, del ronzio, di quella desolazione, e tutto quello che avrei voluto fare era andarmene.
Ma non me ne andai, naturalmente.
E' banale ridurre le motivazioni a semplice curiosità per quello che avrei trovato nel locale, c'era altro... in fondo tutto quello che avevo fatto quella sera portava con se un sottile senso di ineluttabilità. Semplicemente, dovevo entrare.
Un elegante tappeto rosso scuro arrivava fino alla colossale porta d'ingresso. Era di legno, con specchiature in vetro opaco decorate con eleganti motivi floreali, e aveva due grosse maniglie in ottone. Le toccai, e il ronzio scomparve immediatamente. Attraverso le ampie vetrate si intuiva l'atrio del locale, illuminato da luci soffuse, e nel rinnovato silenzio sentivo provenire dall'interno voci, risate, tintinnare di bicchieri e musica jazz, un vecchio standard suonato egregiamente.
Fermo, con le mani sulle grosse maniglie d'ottone, mi resi conto che il cuore mi batteva forte. Mi feci coraggio ed entrai.
La porta si chiudeva lentamente alle mie spalle, mentre venivo avvolto da un piacevole tepore profumato che sciolse in pochi secondi tutti i muscoli irrigiditi per il freddo e la tensione. Mi resi conto che anche la sbornia era quasi passata, lasciandomi come ricordo un lieve mal di testa pulsante.
Davanti a me un signore in abito elegante e i capelli impomatati mi diede il benvenuto da dietro un piccolo mobiletto che faceva da reception. Tutto attorno appesi ai muri c'erano foto in bianco e nero di splendide ragazze avvolte in pellicce o boa piumati.
Gli mostrai il biglietto. Mi disse che ero in ritardo, ma che avrei comunque potuto gustarmi il secondo spettacolo, che sarebbe iniziato tra una ventina di minuti. Sorrise e poi, accennando un leggero inchino, mi invitò a varcare la soglia del salone principale.
Ero frastornato: il lacchè, le foto in bianco e nero, le piante ornamentali...era tutto lontano anni luce da quello che mai avrei potuto immaginare di trovare in un locale notturno dei sobborghi di questa città.
Seguii il pinguino impomatato che mi accompagnò giusto per pochi passi nel salone principale, per poi tornare al suo lavoro. Ricordo che fui impressionato dalle dimensioni del locale: la struttura del salone ricordava quella di un vecchio teatro, ma era enorme, con un soffitto altissimo e quattro file di loggioni adornati da tende di velluto. Tutte attorno lampade in stile liberty, che illuminavano con luce fioca e calda il locale.
Alla mia destra un banco bar che sembrava non finire mai, con quattro barman impegnati a servire la clientela. Alle loro spalle, file interminabili di bottiglie poggiavano su mensole in cristallo illuminate ad arte che creavano favolosi giochi di luce.
Al centro del salone c'era un ampio palco leggermente rialzato. Immaginai che lo "spettacolo" si sarebbe svolto proprio li sopra. Fu una piacevole sorpresa scoprire che la musica non proveniva da altoparlanti, ma da una vera e propria band, che suonava poco distante dal palco. Avevano appena attaccato con un nuovo pezzo, qualcosa di Glen Miller questa volta.
Mi mossi in direzione del bar, non tanto per un reale desiderio di bere qualcosa, quanto per non continuare a rimanere fermo come un idiota davanti all'ingresso del salone.
Il locale era affollatissimo, tanto che faticai a trovare uno sgabello libero al banco. Ordinai una spremuta, e il barman mi scrutò per una frazione di secondo con uno sguardo tra l'interrogativo e il divertito, ma non fece obbiezioni.
Stavo iniziando a rilassarmi. L'aria seducente e sorniona di qul posto aveva in pochi minuti rimosso il ricordo dello strano mondo buio che stava la fuori...
Se mi fossi soffermato a pensare a come poteva essere arrivata li tutta quella gente, considerato il fatto che davanti al locale non c'era neppure l'ombra di un'auto, forse qualche campanello nella mia testa avrebbe tintinnato. Avrei anche potuto pensare che altri fossero arrivati a piedi come me, ma non sarebbe stata una scusa plausibile per tutti i clienti.
La sbornia sembrava essere ormai passata del tutto, e sorprendentemente non avevo neppure sonno. Controllai l'orologio, che segnava le 2:30. Mezzora, non mi sarei trattenuto di più.
Sorseggiavo il mio "drink" con le spalle rivolte al bancone, osservando ora con più attenzione la ricca clientela del locale e le bellissime ragazze che passeggiavano eleganti tra la folla, sorridendo maliziosamente a chi incrociava il loro sguardo.
I loro costumi di scena erano favolosi, sembravano provenire dal guardaroba di qualche studio di Hollywood. Leonesse, amazzoni con tanto di scudo e lancia, copie viventi di Greta Garbo, sacerdotesse egiziane, infermiere o antiche patrizie romane.
Molte di loro intrattenevano già le loro prede designate: in piedi vicino al bar o sedute sugli ampi divani in pelle che circondavano la pista, sorridevano, ammiccavano, discutevano amabilmente, abbozzavano il broncio se la vittima accennava a volersene andare, e si lasciavano scappare risate cristalline quando riuscivano a convincerla a restare, e magari a seguirle nei locali privati del locale lassù, nel loggione più in alto
Sorridevo tra me e me, perché per quanto curata, affascinante, eccitante, alla fine si trattava pur sempre di una farsa, dove ognuno recitava (più o meno coscientemente) la propria parte seguendo cliché vecchi forse 100 o 1000 anni.
E mi divertivo ad osservare la scena come se fossi un semplice spettatore, quasi come se io stesso non mi trovassi realmente li.
"Non per farmi gli affari tuoi ma... è succo d'arancia quello?"
Mi voltai in direzione della voce. Una ragazza aveva appena raggiunto il banco del bar per ordinare qualcosa da bere e mi stava rivolgendo un sorriso luminoso, dolce, in attesa di una risposta.
Ero impreparato, e fui in grado di balbettare solo un "si" malconcio. Era vestita da soldato russo, una divisa invernale della seconda guerra mondiale, grigio-verde, con tanto di cappotto, e mi chiesi come potesse non soffocare li dentro con tutti quei vestiti addosso. Aveva gli occhi azzurri e i capelli lunghi, mossi, color miele. Non aveva un filo di trucco, ed inutile dire che era bellissima. Ordinò anche lei un succo d'arancia.
Mi chiese se mi piaceva il locale, e se fosse la prima volta che venivo li. Parlammo del più e del meno, io le chiesi come si trovasse sepolta in quel costume di scena, lei mi parlò della band di musicisti del locale, e ridemmo un po'. Poi si fece seria. Guardò nel bicchiere semivuoto, e mi disse che non avrei dovuto essere li, che non avrei dovuto venire in quel locale. Credevo fosse uno scherzo e stavo per replicare, ma mi guardò negli occhi. Era seria, e aveva uno sguardo un po' malinconico."Ma ormai è tardi. Goditi lo spettacolo, ci vediamo tra mezzora ok?" Cercò di abbozzare un sorriso ma non fu molto convincente, e se ne andò.
Non capivo cosa intendesse, ed ero frastornato non so ancora se dalla sua bellezza, dal suono della sua voce o se da quell'ultimo sguardo triste. Ormai era chiaro che non ero più uno spettatore esterno, e che in quella farsa avevo un ruolo anche io.
Guardai in direzione del palco, e mi accorsi ora che tutto attorno ad esso erano stati disposti drappi rossi alti almeno un paio di metri. Un presentatore in frac, non molto alto e con i baffetti alla Clark Gable, illuminato da un fascio di luce forse un po' troppo forte, annunciò l'inizio del secondo spettacolo.
Le luci si abbassarono di colpo, e drappi caddero. Un'esplosione fragorosa inondò il locale, e in fondo al palco delle lingue di fuoco eruttarono dal cratere di un enorme vulcano alto almeno 3 metri. Pian piano faretti disposti ad arte illuminarono la foresta africana ricostruita ad arte. Arrivarono le leonesse, le cacciatrici, le indigene, le donne alligatore, e iniziarono le danze.
Non durò molto, ma fu uno spettacolo magnifico, con una grande carica erotica ma senza l'ombra di volgarità, e con effetti scenografici degni di uno spettacolo di Broadway. Si congedarono con un inchino, le luci si spensero di nuovo, e quando dopo pochi secondi si riaccesero era tutto tornato come prima. Nessun'ombra di vulcani, palme, pellicce o fucili per terra.
La ragazza tornò da me qualche minuto dopo. Aveva in mano un bicchiere pieno di una sostanza giallognola che sembrava whisky.
"Non preoccuparti, è solo succo di mela. Prendi, avrai sete: sono 10 minuti che tieni in mano quel bicchiere vuoto".
Risi di gusto, e la ringraziai. Il succo era fresco e dolce. Ci fù qualche attimo di silenzio. Poi distolse sguardo, concentrandosi sulla fila di bottiglie alle mie spalle, e mi disse "Sono venuta a prenderti, abbiamo ancora un po' di tempo prima che il locale chiuda".
La guardai e indicai l'ultimo loggione "Intendi lassù?"
Annuì, poi prese il bicchiere dalla mia mano e scolò l'ultimo goccio di succo. "Non hai altri impegni, o sbaglio?"
In un attimo fui letteralmente invaso da un turbine di sensazioni contrastanti. Provavo una sorta di euforia, una strana eccitazione mista ad imbarazzo, e qualcosa che assomigliava molto da vicino alla paura, e della quale non intuivo l'origine. Doveva essere una sensazione non molto diversa da quella che può provare un paracadutista al suo primo lancio nel vuoto.
Le dissi che no, non avevo altri impegni, e lei mi prese per mano, stringendola un poco. Scivolammo tra la folla diretti verso il retro del palco, alle spalle della band.
In fondo era per questo che ero venuto qui, no? La scusa dell'ultimo bicchiere in un posto esotico era la più banale che potessi raccontare a me stesso. La realtà è che volevo solo lasciarmi andare, provare finalmente sensazioni che non fossero rabbia o frustrazione per una vita che non andava esattamente come avevo previsto. Ed ero conscio dell'artificialità di tutto quanto, o se vogliamo della sua "teatralità", ma decisi che non me ne importava nulla.
Le scale in legno, a chiocciola, erano ripidissime e sembravano non dover finire mai. Arrivato all'ultimo piano dovetti fermarmi a riprendere fiato, e mi rincuorò vedere anche lei, ben più giovane di me, leggermente in affanno. Mi fece cenno di seguirla.
Camminavo in silenzio al suo fianco lungo un ampio corridoio semicurvo, che seguiva il profilo dell'atrio principale del locale. La musica e il vociare giungevano ovattati. Sulla nostra destra si trovavano gli ingressi ai vari settori del loggione, protetti da pesanti drappi di velluto rosso. Uno di questi, circa a metà corridoio, era aperto, e la ragazza entrò trascinandomi dolcemente per un braccio.
La stanza era illuminata da luci basse e calde, c'era un enorme divano con davanti un tavolino, con sopra un vaso di enormi fiori bianchi, una bottiglia dall'aspetto decisamente costoso e due bicchieri.
Chiuse con un rapido movimento le tende, legandole tra di loro con un grosso cordone dorato, e forse solo in quel momento compresi che li dentro eravamo soli, io e lei. Era ferma davanti a me, con la sua uniforme ancora ermeticamente chiusa come se fosse appena tornata da una ronda notturna nel gelo di Stalingrado. Se ne stava li ferma, nella penombra, sorridendo un poco, ed era bellissima. Tanto da farmi quasi dimenticare in che tipo di posto mi trovassi, chi fosse lei...e chi fossi io.
Mi avvicinai a lei, improvvisamente avevo voglia di stringerla. "Sei stato stupido, non avresti dovuto venire qui...questo... questo non è un posto per te." Disse queste parole con un tono dolce e rassegnato. Aveva detto una cosa simile anche giù, al bancone del bar. Ora come prima non capivo cosa volesse dire, ma probabilmente saperlo non avrebbe cambiato le cose.
Ormai le nostre labbra erano vicinissime, aveva un profumo meraviglioso. Ci sfiorammo, delicatamente, studiandoci un poco. Avvicinò le mie mani ai bottoni del suo pesante cappotto, invitandomi a slacciarlo, ed iniziammo a baciarci.
Sotto il cappotto indossava il resto dell'uniforme, e fu un compito tanto lungo quanto piacevole quello di sfilarle poco a poco tutti gli indumenti. Lei indossava ancora i pantaloni e gli stivali quando decise che era il suo turno.
Mi spinse all'indietro, facendomi cadere sugli enormi cuscini che si trovavano sul pavimento in moquette, facendo in modo che la guardassi dal basso verso l'alto. Aveva un seno magnifico, e i capelli color oro le scendevano morbidi sulle spalle. Mi aveva in pugno e lo sapeva. Ci baciammo di nuovo, in modo appassionato, e non eravamo ancora totalmente svestiti quando scivolai dentro di lei.
L'incubo iniziò alcuni minuti dopo, mentre eravamo ancora stretti l'uno all'altra. Vidi le luci della camera tremolare, vibrare, poi una visione agghiacciante. Mi trovavo in una vecchia stanza semibuia, su un letto di stracci luridi. Lei era li, le sue mani artigliavano ancora dolcemente la mia schiena, i suoi seni premevano contro il mio petto, i suoi occhi erano chiusi e stava gemendo col capo leggermente reclinato all'indietro. La sua bocca era sporca di una sostanza scura, che le scendeva in rivoli densi sul collo. Notai le due sottili lame bianche, anch'esse incrostate di quella sostanza, che uscivano dalla bocca. Due canini lunghissimi. Nella fredda penombra vidi che i suoi capelli erano neri e corti, e che la sua pelle era bianchissima, e segnata da vene violacee che pulsavano al ritmo del suo respiro.
Poi finì tutto, ed ero di nuovo nel lussuoso loggione del Black Ice. Ero coricato sui cuscini, coperto da un lenzuolo bordeaux, e lei era seduta alla mia destra, con le gambe strette al petto e mi guardava con la testa appoggiata sulle ginocchia.
Il mio respiro era affannoso, quello che avevo visto, qualsiasi cosa fosse, mi aveva terrorizzato. Mi tastai il collo e il petto in cerca di ferite, ma non ne trovai. Feci per dire qualcosa, ma lei appoggiò piano un dito sulle mie labbra. Poi si avvicinò.
Mi irrigidii, avevo paura. Ma appoggiò semplicemente le sue labbra sulle mie. Il panico si dissolse poco a poco. Mi abbracciò, e restammo così, in silenzio, per qualche minuto. Poi devo essermi assopito, e quando mi svegliai lei era già vestita di tutto punto, seduta sul divano. Mi guardava.
Mi rivestii anche io, e sempre in silenzio uscimmo da quella stanza. Giunti vicino alla scala mi disse che dovevo scendere da solo: il locale stava per chiudere e dopo una certa ora le era impedito di tornare nel salone principale. Ero già sul primo gradino quando mi disse "Vorrei non vederti mai più, ma so che non sarà così...", poi si voltò e la guardai avviarsi lungo il corridoio.
Nel salone principale c'era ancora parecchia gente, ma indubbiamente meno di prima. La band aveva appena finito di suonare l'ultimo pezzo, e si stava congedando.
Era ora di tornarmene a casa, non sapevo neppure che ore fossero. Pensai che probabilmente avrei potuto andare direttamente al magazzino... ad occhio e croce la fuori stava già iniziando ad albeggiare.
Mi avviai verso l'uscita, cercando di farmi strada nella la calca del locale. E poi capitò di nuovo: le luci tremolarono e per una frazione di secondo mi trovai in uno stanzone enorme e buio, con le uniche luci che provenivano da vecchie finestre che davano sulla strada. Tutto era decrepito, lercio, maleodorante. Sembrava che la folla che mi circondava non si fosse accorta di nulla. Quello che vedevo esisteva solo nella mia testa, oppure loro semplicemente non si accorgevano di nulla? Continuavano come se niente fosse a discutere, a scherzare, a ridere, a sorseggiare cocktail dai loro bicchieri, ma io vedevo che quei calici erano vuoti, opachi e rotti, che i loro vestiti erano logori almeno quanto i loro volti sorridenti ma segnati da sofferenze inenarrabili, da tragedie familiari, da sogni infranti, dalla solitudine, da vizi, da dipendenze.
Vidi tutto questo in una frazione di secondo, poi tutto tornò alla normalità.
Raggiunsi di corsa, spaventato, l'atrio d'ingresso del locale. Il lacchè mi rese il giaccone in pelle, e mentre mi augurava, sorridendo, la buona notte cercai sul suo volto quelle orribili vene pulsanti e quei denti aguzzi, ma non ne trovai traccia.
Uscii dal Black Ice, ed era incredibilmente ancora notte. Ancora nessuna auto, e ancora quella desolazione. Nessun ronzio, ma sapevo che era in agguato da qualche parte.
Mi tuffai senza pensarci nel nero minaccioso del vicolo dal quale ero arrivato: avevo paura e volevo solo mettere più asfalto possibile tra me e quel locale.
Non sapevo cosa avessi visto in realtà, ero propenso a credere che si trattasse di visioni indotte da un mix di stanchezza e alcool. Diedi la colpa anche agli incensi che profumavano gli ambienti del loggione: avrebbero potuto contenere oppiacei o sostanze simili.
Ma anche se fossero state solo frutto della mia immaginazione, che si è divertita a mescolare la realtà con immagini prese in prestito da horror di serie B, le cose che avevo visto avevano scavato nel profondo delle mie paure, raggiungendo luoghi che solitamente si visita solamente quando si è piccoli e si ha paura del mostro nascosto nell'armadio o sotto il letto.
Questi pensieri si affollavano nella mia mente mentre correvo a rotta di collo in quei vicoli tortuosi. Raggiunsi George Street dopo un tempo che mi sembrò infinito: avevo il cuore in gola, ero senza fiato. La milza sembrava voler esplodere da un momento all'altro e mi lanciava continue violentissime fitte di dolore.
Mi sedetti con le spalle al muro per riposarmi un poco, e mi resi conto che era giorno. Il campanile della chiesa indicava le 8:30, ed era una luminosa mattina d'inverno, di quelle che non si vedevano da tempo. Il marciapiede era invaso dalla folla che si recava a far colazione o al lavoro, il giornalaio di fronte si stava tirando la pelle e un vigile stava facendo attraversare la strada ad un gruppo di bambini armati di zaini colorati, cuffie e guanti.
Mi ci volle qualche minuto prima di riuscire a rialzarmi. Decisi di andare direttamente al magazzino, il capo sarebbe stato su tutte le furie ma non mi andava di nascondermi dietro un telefono.
Quando arrivai, quasi alle 10, cercai di scusarmi ma (come immaginavo) fui investito da un fiume di improperi e di urla, e dalla promessa che questa sarebbe stata la prima ed ultima volta: al prossimo sgarro mi avrebbe sbattuto per strada con un calcio nel culo.
Andai a cambiarmi nello spogliatoio, saltai sul mio muletto e feci il mio dovere fino alle 18 senza quasi fermarmi.
Credo che a tenermi sveglio fosse solo l'adrenalina causata da quello che avevo vissuto quella notte e dalla paura di perdere il posto di lavoro. E il pensiero di lei, che non mi abbandonò tutto per tutta la giornata. Quando tornai allo spogliatoio e aprii l'armadietto sentii il suo profumo ancora sui miei vestiti, e quello fu il colpo di grazia: ero indiscutibilmente terrorizzato da quel luogo, ma avevo già bisogno di rivederla, un bisogno quasi doloroso.
Me ne tornai a casa, buttai i vestiti nella lavatrice e mi feci una doccia bollente.
Presi dal frigorifero una birra e mi preparai un panino mentre guardavo alla tv la replica di una vecchia puntata di Friends.
Stavo cercando di mettere in un angolo i ricordi di quella notte da incubo e da sogno, e per quella sera funzionò.
L'adrenalina mi abbandonò all'improvviso poco dopo aver finito quella succulenta cena. Sprofondai sfinito nel mio letto e mi svegliai da quel sonno senza sogni solo alle 5 della mattina seguente.
Sono passate tre settimane da allora, e la forza di volontà sta avendo la meglio sul desiderio (folle, dissennato) di tornare al Black Ice. Penso ancora a lei, ma riesco a tenere a bada i ricordi.
Al lavoro sembra essersi tutto sistemato. Oggi nella pausa pranzo il capo si è complimentato per come ho risolto alcune problemi al magazzino centrale, e mi ha addirittura chiesto scusa per quella sfuriata.. quasi non credevo alle mie orecchie. Che le cose inizino finalmente a girare per il verso giusto?
Non ho mai tenuto un diario, semplicemente perché non ho mai trovato la mia vita tanto interessante da dover scrivere alcunché che mi riguardasse... ma quello che è successo quella notte è stato terribile e bellissimo, e credo di aver fatto bene a prendere in mano la penna per raccontarlo.
Chissà se rileggerò mai queste pagine?
[segue nel post successivo]
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